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“The Outsider” e la lezione di Stephen King: l’universo non ha confini

Alle soglie del suo sessantesimo romanzo, Stephen King non vuole saperne di inserire il pilota automatico e continua a trovare ispirazioni sempre nuove per i suoi lettori. Con “The Outsider” disinnesca le bugie della violenza mediatica ripescando la più grande paura di sempre, quella per l’Uomo Nero.
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La prima volta che ho letto Stephen King ero poco più che un tredicenne: "Il talismano", un romanzo a quattro mani con Peter Straub. Trovai il formato tascabile, di quelli perfetti per l’estate, a una fiera poco prima di partire per le vacanze. Ce l’ho ancora, l’ho portato con me nella libreria della casa in cui sto adesso (con moglie e figlia in arrivo). Sfogliando ora quelle pagine, ingiallite all’inverosimile, sento ancora al tatto la salsedine accumulata da ore di lettura a pochi passi dal mare, sotto l’ombrellone. “Il talismano” è un fantasy che procede su due binari distanti, tra realtà e immaginazione, un tempo presente e uno alternativo. Restavo incollato a quelle pagine, accettando ogni compromesso mentre imparavo una lezione fondamentale della scrittura di King: non esistono confini.

La premessa, prima di parlare di “The Outsider”, l’ultimo romanzo pubblicato in Italia dal "Re" (Sperling & Kupfer, 530 pp.), è per lasciarvi comprendere quanto tenga a questo autore che, alle soglie del suo sessantesimo romanzo, non vuole saperne di inserire il pilota automatico, continuando a trovare ispirazioni sempre nuove per il suo regno del terrore. Il romanzo si apre al lettore come una classica crime story. Terry Maitland, amatissimo coach della squadra di baseball della piccola Flint City, viene arrestato durante la partita stagionale più importante dal metodico, integerrimo detective Ralph Anderson. Terry è il mostro sbattuto in prima pagina, e a giusta ragione. Avrebbe stuprato, preso a morsi e poi fatto scempio del cadavere di un ragazzino di soli 11 anni, il piccolo Frank Peterson. Forte di una serie di prove schiaccianti su di lui, basata su più testimonianze e sulla compatibilità delle impronte digitali, mosso da un sentimento di rivalsa e disgusto nei confronti dell’uomo che ha allenato suo figlio, Ralph Anderson decide di esporre Terry Maitland a una gogna pubblica, che finirà per ritorcerglisi contro.

Perché Terry Maitland ha il classico alibi di ferro. E qualcosa di più. Era fisicamente presente in un altro luogo al momento del delitto: ci sono telecamere e testimonianze in sua difesa. Ma allora chi ha ammazzato il piccolo Frank? La prima parte del libro si conclude con uno scossone, un plot twist che dilata i tempi del racconto e costringe a un salto nel buio. “L’universo non ha confini”. Lo ricorda al detective Anderson (e al lettore) Holly Gibney, vecchia conoscenza dei lettori “kinghiani” già presente nella trilogia di Bill Hodges. Perché nella seconda parte è lei il personaggio chiave del romanzo, la parte mancante del puzzle, colei che copre – con la forza dell’umiltà – le presunzioni del detective Ralph Anderson. E in questa contrapposizione, la sfrontatezza di Ralph contro la discrezione di Holly, che il romanzo rivela uno dei suoi messaggi più nitidi.

“The Outsider” è stato presentato come il lavoro più politico di King, del resto è aderente al tempo presente. C’è la violenza mediatica dell’America di Donald Trump, che noi stiamo vivendo di riflesso con Matteo Salvini e il suo governo del cambiamento. C’è l’avventatezza di un sistema e delle sue bugie, che disorienta e richiede uno sforzo laterale per essere disinnescato. E allora ecco che il "Re" rinverdisce la più grande paura di sempre, il mito dell'Uomo Nero. Non dobbiamo essere ciechi, abbiamo bisogno di credere all’inesplicabile perché “l’universo non ha confini”. In fondo, la lezione di Stephen King è sempre la stessa, cambia solo – non è poco – il modo che ha di raccontarcela.

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