La storia si ripete ormai da diversi anni: il magazine femminile Marie Claire del mese di novembre propone una copertina e un servizio all'interno, con una ragazza estremamente magra. La scrittrice Michela Murgia pubblica sulla sua bacheca un post di critica a quell'immagine, uguale più o meno alle copertine di tutti i magazine femminili da anni.
“Copertina di novembre del mensile MarieClaire. Quando cominceremo a reagire sul serio e tutte insieme alla costruzione di una simile idea di donna?”
Una reazione, sacrosanta, che dura da più di un decennio: sono immagini che fanno protestare intellettuali e società civile, finiscono in analisi sociologiche, filosofiche, antropologiche e psicanalitiche. In fondi di quotidiani paludati internazionali. Le dive di tutto il mondo (quelle appartenenti alla categoria “clever” e meno quella “bimbo”) si sono allineate alle proteste. Da anni insomma l'intero pianeta dell'area progressista reagisce a questi modelli femminili. Il perno delle proteste risiede nel fatto che si veicola, con donne ritratte così, uno stereotipo di donna alla quale non è facile somigliare, ma che essendo diventato un modello unico e soprattutto un – inspiegabile – canone di bellezza (ciò che è rappresentato molte volte diventa seducente), si è trasformato in una ragione di frustrazione soprattutto per le più giovani, e nel peggiore dei casi, può contribuire a incoraggiare l'anoressia.
Al post di Michela Murgia su facebook replica, come se lo sentisse la prima volta, dalle colonne dell'Unità, Alessandra Serra docente universitaria che si “occupa di linguaggio della politica e dei nuovi media”, con un' analisi prima di tutto maleducata: “Anoressica a tua sorella” è il titolo (anche se Murgia non ha mai menzionato l'anoressia). Lontana da ogni dibattito di questo ultimo decennio, la docente e comunicatrice politica del Pd sprofonda poi nei luoghi comuni più corrivi e ottusi: “il femminismo d'antan”, “chi protesta è invidioso” fino alla difesa della modella che però è solo una persona che lavora e vive dell' immagine che le chiedono di interpretare quindi l'ultima da chiamare in causa sia per un'accusa sia per una difesa. Ma al di là della confusione e dei pasticci di Alessandra Serra sull'intera filiera della comunicazione e sulle responsabilità, per non parlare dell'ignoranza dei dibattiti in campo da anni, sarebbe utile, almeno per una volta, metterci invece nei panni di un'ipotetica Casa di Moda e della direttrice di un giornale femminile (la quale peraltro ha commentato dicendo che la taglia 38 è normale. Che significa un metro e settanta con un peso sui 48 chili grosso modo).
La Casa di Moda dunque vuole presentare, tramite il magazine, la sua collezione. E -giustamente- gliene importa assai poco del dibattito sulle adolescenti che si affamano e si rattristano per entrare in una poco consueta (ma possibile) taglia 38. E ancora meno delle immagini e degli stereotipi. Del resto, onestamente, capiamo che anche alla direttrice della rivista gliene importi poco: entrambi devono vendere. Partiamo dal principio che la Casa di Moda voglia mettere in risalto il suo prodotto: è bene perciò che sia un corpo sottile ad indossare perché i tessuti cadono meglio, che la modella sia al di sopra di un metro e settanta per dare modo allo sguardo di capire l'abito, e che ovviamente la donna che li indossa sia graziosa. Perché? Perché si deve vendere. La vendita ha a che fare con l'universo del desiderio e della seduzione. Chi compra lo fa sedotto anche, perché no, da un modello di donna alla quale vorrebbe somigliare, che faccia appunto tendenza, che sia riconoscibile e pertanto apprezzato etc. L'acquisto ha a che fare con il desiderio dunque. Non solo. Per un corto circuito che non stiamo qui a dire è successo anche un altro fatto. Non solo devono essere magrissime le donne ma soprattutto devono sedurre, arrapare, adescare qualcuno. Tutto ciò anche se i magazine sono letti da sole donne. Il che ha generato e confermato nel tempo il seguente messaggio: io mi identifico con una donna che seduce, e quindi so che acquistando quel dato modello, potrò sedurre anche io. Al di là della critica che si può fare a questo messaggio, rimanendo invece sul piano di purissimo cinismo e di consumismo dobbiamo allora porre una serie di domande sulla seduzione, la comunicazione e sul processo di identificazione.
La prima è perché i magazine che sono destinati a delle donne dai venticinque anni in su usano delle modelle bambine (o che sembrano tali). Per attirare e solleticare pedofili (salvo poi odiarli)? E perché le donne adulte che hanno a disposizione il portafoglio per comprare dovrebbero apprezzare abiti destinati a delle adolescenti? E ancora. La Casa di Moda affida il suo prodotto a una modella graziosa o presunta tale. Del resto voi, nei panni di una Casa di Moda, fareste presentare la vostra collezione da una donna o un uomo brutti? Si mettono in scena quindi gli abiti con un set fotografico che poi sarà pubblicato nella rivista. Come è possibile allora, dando per giusto questo circuito di seduzione e di appeal, che tutte le ragazze appaiano al di sotto dei sedici anni, o giù di lì, ma soprattutto sono tutte, davvero tutte depresse, e insomma quelle che si direbbe delle “sfigate”?E anche brutte. Pur indovinando nella bruttezza tratti gradevoli. Quindi rese poco attraenti grazie a uno sforzo del trucco e della luce. Volutamente brutte.
Dove sarebbe poi il fascino di queste donne buttate per terra, aggrovigliate su sedie o divani, con sguardo senza vita? Se vediamo delle modelle fotografate ci piace immaginare cosa sta facendo, nella finzione del set, quella modella. E perché fanno tutte sempre la stessa smorfia arrabbiata? Con chi ce l'hanno? Perché mai nessuna interpreta l'abito e lo racconta appunto, focalizzando e distraendo invece l'attenzione del lettore solo sulla sua tristezza? Quanto può coinvolgere invece in un attimo solo un volto sorridente, luminoso, buffo, curioso, intenso, pensieroso molto più di una sola e unica espressione di malessere? Quale uomo, sempre nell'ottica del messaggio di seduzione che si vuole imporre, sarebbe sedotto da una donna triste? Quale donna ha la tristezza o la sfiga come obiettivo? Quale madre vorrebbe che sua figlia fosse una sfigata? Chi desidera più niente quando è depresso? Soprattutto: siamo sicuri che il modello da combattere sia davvero la taglia 38 e non invece la gioventù rappresentata come oceano di depressione? Ingrandire la questione, mettendosi nei panni di una casa di moda che deve vendere, anziché sulla lamentala sociologica, apre scenari ben più inquietanti che riguardano invece il masochismo degli imprenditori come anche delle riviste di moda (che non è che se la passino benissimo): assistiamo a un lento suicidio in diretta. E ce lo rappresentano in tutti modi.