Sterling Ruby al Macro: l’inquietante morbidezza
In questi caldi giorni di agosto i musei romani continuano a proporre le loro grandi mostre. Al Macro Testaccio, dopo una vertigine dai 25 metri d’altezza del labirintico Big Bambù dei fratelli Starn, è visitabile la mega-installazione dell’americano Sterling Ruby, allestita fino al 15 settembre.
Per chi non conosce l’artista, il suo cognome, Ruby, evocherà episodi d'attualità più o meno recenti, di ambito più o meno politico… Bene, non è di quello che si tratta, ma di uno degli artisti contemporanei più esplosivi, originali e in crescita del momento. Sterling Ruby (1972) ha origini tedesche, ma di fatto ha vissuto in America sin da bambino, dapprima nella Pennsylvania rurale, per poi formarsi artisticamente in diverse metropoli statunitensi e stabilirsi infine a Los Angeles, dove tuttora vive e lavora.
Della sua poliedrica produzione, che spazia dalla ceramica al video, dall’installazione alla pittura, dal disegno alla fotografia, Sterling ha portato a Roma enormi sculture morbide: forme disparate fatte di stoffa, soffici, colorate e disseminate nello spazio. Le opere che invadono pavimento, pareti e ogni struttura di uno dei padiglioni del museo di Testaccio vanno in realtà considerate un’unica grande installazione, un Soft Work, come indica il titolo della mostra.
Il visitatore si trova circondato da grandi cuscini, oggetti morbidi accatastati uno sull’altro, sagome sinuose aggrovigliate disordinatamente; intento a decifrare le forme appese alle pareti, dovrà scavalcare le sculture sparse sul pavimento come ostacoli in un labirinto. L’atmosfera è vivace: colori forti, fantasie accese, configurazioni dinamiche. Eppure serpeggia pian piano un senso di disfacimento, di inquietudine e minaccia. Un po’ come in un circo, dove dietro le tante luci, l’allegria e la vivacità, si cela tutto sommato un mondo difficile.
Con Ruby al Macro, trapunte, cuscini e coperte diventano corpi scultorei di natura ambivalente: i simboli di familiarità, di comodità domestica e confortevolezza, con le loro forme ambigue, finiscono per evocare lacrime, gocce di sangue, bocche spalancate, persino gigantesche sagome di corpi umani foderati. Non a caso, questi ultimi sono definiti Mariti, mentre si designano come Vampiri le ricorrenti forme di bocche con zanne o gocce di sangue. Ed ecco che, da corpi informi e masse indefinite, si va definendo e comprendendo l'immaginario figurativo di Sterling Ruby.
Dietro i colori forti e l'apparente confortevolezza, l'artista sta gridando la sua critica, che si fa tanto più palese quanto più tempo si passa a vagare nei grovigli del Soft work. È una critica alla società e alla cultura americane, che mentre diffondono l'ideale del focolare domestico e della tranquillità familiare, contemporaneamente insinuano paura, insegnano violenza, inducono al consumismo. Il Soft work non accoglie, divora. Allora capiremo che, quando tra le fantasie delle stoffe scelte da Ruby compare quella a stelle e strisce della bandiera americana, non si tratta certo di un elogio, ma di una spietata, seppur ironica, polemica.
Emergono evidenti le influenze dell'artista, volutamente lontano da ogni forma di minimalismo e da sempre ispirato dalla cultura underground, dal graffitismo e il punk, affiancati a studi di psicologia, economia e sociologia. "Tendo a pensare all’arte in termini terapeutici, che l’arte sia una vera terapia", dichiara, mentre propone atmosfere e immagini di rovina e caos, specchio – e forse cura – della società disfatta.
È così che Sterling si presenta a Roma, per la sua prima personale nella città capitolina, la quale sembra avergli predisposto un trampolino di lancio, considerando che, nello stesso periodo della mostra al Macro Testaccio, la Fondazione Memmo di Palazzo Ruspoli espone un corposo insieme di collage di Ruby: oltre settanta opere per illustrare un decennio di attività creativa ed andare a fondo nelle ossessioni formali e tematiche di questo artista pienamente e violentemente contemporaneo.