“Sottomissione”: Houellebecq e la massificazione dei letterati
Il direttore di questa testata un giorno mi disse: “ricordati che quando qualcuno legge la tua recensione è perché vuole sapere con chiarezza se a tuo parere il libro deve leggerlo o non deve leggerlo, se per te è brutto o è bello”. In questo caso, rispondere al primo di questi due basilari interrogativi è molto semplice: si, leggetelo.
Sul giudizio di valore: sono rimasti in pochi i critici che pensano ancora che il loro gusto possa influire (per non si sa quale virtù superiore) sul pubblico. Che in effetti legge un po’ quello che vuole, ovviamente. Il compito di una recensione dev’essere quello di almeno provare a capire e a far capire il libro, rifletterci su con una prospettiva un po’ più ampia del normale per comprendere i meccanismi che innescano il suo successo, i meccanismi testuali che ci rapiscono e contribuiscono all’affabulazione. È in questo modo che ogni critico serio deve giustificare un giudizio e quindi le cose sono più difficili.
E così è arrivato il nuovo libro dello spinoso e molto talentuoso narratore francese Michel Houellebecq. Appena si aprono i romanzi di Houellebecq traspare subito una cosa, con forza ed evidenza: lo sguardo pesante e incisivo dello scrittore. Sembra quasi che Houellebecq sorrida, sornione, dietro le pagine. Sembra quasi che l’immaginare la figura di un narratore ammiccante e in grado di far trasparire un'idea molto precisa del mondo in cui viviamo sia la cosa più importante del romanzo.
Soffermiamoci un attimo ad osservare la struttura del libro: è scritto in prima persona ed oltre alla voce del narratore-protagonista, a ben vedere, non c’è spazio per altre forti presenze. Ci sono sì bozzetti di personaggi suggestivi: un professore associato venticinquenne dalla vena conservatrice, una giovane studentessa che si innamora del protagonista, una serie di figure politiche e istituzionali che vengono evocate in modo caricaturale e satirico, un direttore della Sorbona nietzschiano. Tutto il resto del libro è solo e soltanto una voce che attraversa e descrive una Francia in decadimento softcore. La tesi del libro, che traspare del resto limpidamente dalla trama, è perversamente affascinante. La decadenza dei costumi coincide con il ritorno della religione, cui l’uomo finisce per affidarsi perché non sa gestire la libertà che possiede. Il libro infatti racconta, secondo il trito modello del romanzo distopico, che i socialisti, usciti da due disastrosi quinquenni di Hollande, pur di battere Marine Le Pen e il Fronte Nazionale, si alleano con un partito islamico.
La voce-io narrante ruzzola quasi senza freni, impotente, attraverso questo scenario che vive solo proiettato sugli schermi di un televisore di casa sua, sui giornali, mentre mangia cene precotte. L’autore gioca molto sul contrasto fra il prestigio supposto dello status di professore universitario e lo squallore disseminato nei rapporti sociali, nelle relazioni umane; fa così trasparire tutto il proprio atavico, profondo, sconsolato cinismo. Il personaggio principale sembra uscito da
una statistica sugli abitanti del 15emo arrondissment, la zona più borghese di Parigi; con tutta la sua intelligenza, è uniformato: è colto, ma è squallido, è intelligente, ma è impotente, è intuitivo, ma si lascia scivolare le relazioni umane sul palmo delle mani. Anche il narratore-protagonista, insomma, nonostante sia l’unico, assoluto, nucleo su cui ruota tutto il libro, sembra solo la comparsa in una vicenda che si sta svolgendo altrove, e che viene raccontata sullo sfondo.
Non può non venire in mente un testo importante come Narrare o descrivere di Lukàcs: questo saggio del critico ungherese ci spiega il vero segreto del successo di Houellebecq, qui come in altri romanzi. Estensione del dominio della lotta, Le Particelle elementari, ad esempio. Infatti Houellebecq è accattivante proprio perché narra e descrive allo stesso tempo, e non molti scrittori lo fanno altrettanto bene. Spieghiamoci meglio: tutte le vicende che capitano al protagonista non sono importanti in sé, ma sono importanti per quello a cui alludono (il decadimento della società, la degradazione del personaggio, ecc.) in realtà nel romanzo non succede proprio niente, l’orizzonte di senso si muove sullo sfondo. Vediamo il protagonista sbattersi e muoversi da un posto all’altro continuamente per tutto il libro, eppure tutto questo agire non ha valore in sé, ma ci tiene incollati perché ci descrive il personaggio, preparandoci al finale, una sottomissione di nome e di fatto, che non sveleremo.
Questo è il vero punto di forza del libro che, in verità, ha anche molte parti finte e trascurate. Huellebecq, puntando tutto su questa tecnica, si può concedere un'ampia parte di posticcio: figure di accademici che appaiono solo come comparse, bozzetti di una Sorbona Censier che si ha facile gioco a dipingere come alienata dal resto della società, quale spesso è il mondo universitario.
Il prossimo passo è chiedersi: perché ha così tanto successo un romanzo del genere? Un romanzo-saggio in cui la drammaturgia è ridotta quasi al minimo, molte parti risultano finte, e che svela la nostra condizione, fra l’altro miseranda? Una risposta delle possibili è: perché ci riconosciamo. In questa sorta di romanzi-botola in cui sopra c’è una storia e sotto c’è una tesi, quanto più priva di connotati, quanto più generica e vaga è la figura che incarna la vicenda tanto più è facile per noi identificarci, esattamente all’opposto di quanto accade con grandi romanzi, basati su personalità elaborate o complesse. L’espediente è dunque permettere che il lettore voli con la fantasia e riconosca nell’anonimato del protagonista della storia l’anonimato della sua vita o, meglio, quello che lui crede essere l'anonimato della sua vita. L'anonimato è infatti prima di tutto una condizione in cui è facile sentirsi in società massificate: quando si ha l'errata percezione, ad esempio, che i propri affetti, i propri legami, non abbiano valore di fronte alla massa.
Quando Alessandro Baricco, in un passaggio di una recensione di qualche giorno fa, taccia il libro di essere troppo ridicolmente incentrato sulla Francia (senza tenere conto delle complesse conseguenze che realisticamente avrebbe una vicenda del genere su tutto il mondo, e così via) omette di dire che è proprio questo il segreto del successo dell'opera: la capacità di mettere su un setting quanto più semplice e scarno possibile, quanto più elementare, in cui poter far avvenire questo processo di identificazione.
E qui veniamo al "giudizio". Questa tecnica che avrà almeno duecento anni ha fra i suoi pregi innanzitutto la resistenza, ed ha sicuramente il pregio enorme di potersi adattare costantemente e descrivere le situazioni più diverse: è una forma ottima nel raccontare la vita contemporanea come l'Ottocento e questo romanzo lo mostra bene. Il grande successo di questo romanzo deriva anche da eventi storici: dagli attentati di Charlie Hebdo, che hanno fatto da strepitoso volano, da strepitoso catalizzatore a questo procedimento di indentificazione verso uno sguardo che fosse quanto più neutro, insulso e impotente, come quello di Sottomissione, quello dell’uomo “assolutamente normale”. Che vuol dire tutto e il contrario di tutto.
Se quindi una casella vuota in una società amministrata è la posizione migliore e più comoda per attraversare catarticamente dei traumatici fatti di cronaca, è veramente il modo migliore ed il modo più intellettualmente onesto per capirli?
Intendiamoci, il libro ha dei meriti: per esempio quello di far riflettere sull’assoluta
fragilità culturale delle nostre società “aperte”, su aspetti profondi della loro inconsistenza che l’autore comunica abbastanza bene e comprende a fondo. Va letto per questo. Da tutta quest'insistenza sulla pornografia, sulla burocrazia, sul declino culturale e politico, ma anche dallo stesso dispositivo formale che questa specie di ammiccante narratore mette in gioco – quello di azzerare qualsiasi unicità dell’individuo al fine di farlo aderire di più alla percezione della massa dei suoi lettori- traspare però un incredibile e (del resto notoriamente) fastidioso cinismo.
Ma al di là del fastidio, quello che viene in mente è che il cinismo è, come ha scritto il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, di per sé l’espressione massima della cultura massificata, del suo essere sovrastrutturale. E questo perché, seguendo il ragionamento di Sloterdijk, il cinismo è un voler rimanere rassegnatamente attaccati a una società, a valori, a culture che si avvertono come sbagliati partendo dal presupposto – quasi metafisico- che nulla di loro possa cambiare, che tutto non possa che rimanere com’è. Ma forse è proprio questa idea, questo pregiudizio assai diffuso per cui nulla può cambiare, che rende tutto immobile e incapace di mutare.
Di qui la masochistica fantasia della sottomissione politica di una società ad un’altra: questo desiderio che si avverte palpitante, nel libro, di decadenza, e che come tutti i desideri veri è incredibilmente contraddittorio; la perversione per cui è lo stesso autore, è lo stesso Houellebecq che desidera segretamente affondare assieme alla cultura di cui diagnostica così freddamente, statisticamente il deterioramento. Huysmans, autore feticcio del libro, potrebbe essere letto come la spia più evidente dello sfogare questo desiderio.
Il libro è, per molti versi, abbastanza buono, "discreto", non è certo il migliore di Houellebecq. È comunque un esempio delle sue capacità narrative, di un'incontestabile capacità di avvincere. Sarebbe bello, però, vedere un tipo di romanzo più simile a Guerra e Pace o al Rosso e il Nero, invece che a Papà Goriot o la Pelle di Zigrino. Romanzi in cui possiamo identificarci con un personaggio perché è frastagliato e complesso, e non con personaggi in cui un narratore può proiettare, come su uno schermo bianco, le nostre ansie e le nostre angosce. Se ai professori mediocri affideremo la diagnosi della nostra decadenza, a un Pierre Bezuchov affideremo volentieri la nostra rinascita.