
Come sempre accade dopo l'annuncio di un nuovo traguardo scientifico, anche a seguito della rivelazione delle onde gravitazionali, nei social come nelle strade, è scoppiata la polemica. “E un bel ‘chi se ne frega?' non ce lo mettiamo?”, “E a me cosa ne viene?”, “Sicuramente ora sì che i pensionati e i cassaintegrati saranno contenti!”, “E i bambini in Africa?”. Queste sono solo alcune delle frasi che si leggono o si ascoltano. La domanda di fondo, comunque, è questa: in un periodo di crisi globale e nazionale, con tutti i problemi che ci sono su questo pianeta, perché sprecare milioni e a volte miliardi di euro/dollari per cercare di vedere cose che non risolvono alcun problema né migliorano la vita della gente comune?
Per chi come me fa Ricerca, tale quesito è un grande Classico. Per chi come me fa Ricerca in Italia, lottando continuamente con tagli e precariato, tale quesito è fonte di sconforto, se non di rabbia e frustrazione. Ciononostante, non si può dire sia un quesito illegittimo: la gente che lo pone è la stessa le cui tasse vengono – sebbene in percentuali irrisorie – reinvestite negli stipendi di noi ricercatori. Direi che è quindi un nostro dovere morale cercare di fugare i dubbi. Un dovere a cui di frequente, questo va ammesso, non prestiamo la dovuta attenzione, chiudendoci nella torre d'avorio che l'immaginario popolare ha eretto per noi, trincerandoci dietro a un “Che glielo spiego a fare? Non capirebbero!”. Un atteggiamento alquanto controproducente, per la Scienza e per la società.
La prima domanda che andrebbe posta, in realtà, dovrebbe essere: perché noi ricercatori abbiamo deciso di fare i precari? Beh, ovviamente non è che fosse il sogno della nostra infanzia, fare questa vitaccia. Il problema è che, nel nostro Paese, “precario” e “ricercatore” tendono a coincidere un po' più dell'auspicabile. Ad ogni modo, cosa ci spinge a fare ricerca in ambiti all'apparenza tanto astrusi e lontani? La stessa cosa che spinge un bambino a scoprire il mondo attorno a lui, alle volte anche facendosi male: la curiosità. La stessa cosa che spinge un attore a recitare o un musicista a comporre: la passione. E, infine, la stessa cosa che ha spinto gli esploratori del passato a rischiare la vita partendo per mari lontani: la voglia di conoscere e scoprire. Di certo non la ricerca del profitto. A questo punto forse capirete il perché delle nostre reazioni veementi, quando un giornalista si permette di andare in onda al telegiornale dicendo che solo noi astrofisici possiamo eccitarci per aver messo piede su una cometa, rovinando la magia della stella del Natale. O quando una testata nazionale affida ad un comico televisivo e cinematografico (il cui lavoro dovrebbe essere un altro) un editoriale per commentare il volo di una sonda nell'orbita di Plutone, e questo comico scrive che in fondo quelli investiti a studiare un sasso nello spazio sono soldi sprecati perché su Plutone il cinema non c'è. Certo, si potrebbe domandare loro il numero di milioni di euro pubblici investiti in quella determinata emittente televisiva o nei film del suddetto attore, ma sarebbe forse di cattivo gusto. Io preferirei invece chiedere loro: a cosa serve la televisione? A cosa serve il cinema? Ad intrattenere e ad appassionare la gente, immagino. Così come la musica, l'arte e la Scienza (ebbene sì, c'è chi la trova appassionante). O come il calcio, altro settore in cui si investono milioni di euro pubblici ma che pare non scatenare altrettante polemiche. E, sia messo a verbale, io per primo seguo il calcio.
Ad ogni modo, questo potrebbe non bastare a rispondere alla domanda iniziale: perché uno Stato dovrebbe investire in Ricerca di base? Beh, la risposta è semplice: perché fa bene. Non all'anima – ho capito che il discorso del “Fatti non foste a viver come bruti” colpisce pochi – ma al portafoglio. Basta guardare le statistiche: le 10 nazioni al mondo con un benessere economico maggiore coincidono in maniera praticamente perfetta con le 10 nazioni che investono di più in Ricerca. Non credo di stupire nessuno, dicendo che l'Italia non è fra questi 10 Paesi. Ma come mai esiste tale corrispondenza? Due parole: ricadute tecnologiche. Dopo una gestazione di qualche anno, infatti, le tecnologie sviluppate per osservare particelle subatomiche o oggetti sperduti nelle profondità dello spazio tendono ad entrare nella vita delle persone e a modificare la società. E, se lo Stato che ha finanziato la Ricerca può sfruttarne i brevetti, allora può cominciare a guadagnarci. O comunque, anche quando i brevetti vengono donati all'umanità, questo Stato in particolare può essere uno dei primi ad impiegare tale tecnologia. Qualche esempio di invenzioni o perfezionamenti derivanti dalla ricerca di base in fisica e astrofisica? Tanto per cominciare, il World Wide Web che state utilizzando per leggermi. O il cellulare. I LED e gli OLED degli schermi di telefonini e televisioni. I transistor senza cui non avremmo avuto l'era digitale. La miniaturizzazione delle componenti informatiche ed elettriche. L'elettricità. I laser. I satelliti GPS e delle telecomunicazioni. La radio e le telecomunicazioni stesse. Il radar. Il microonde e il teflon delle padelle. Il velcro. I motori. I superconduttori dei treni a levitazione magnetica. I pannelli fotovoltaici, le pale eoliche e più o meno ogni altra energia alternativa. Piaccia o no, l'energia prodotta per fissione nucleare. La PET e la TAC negli ospedali. Le nuove terapie adroniche dei tumori. L'ultimo tipo di valvole cardiache. Una nuova tecnologia per filtrare l'acqua in zone soggette ad aridità ed inquinamento. E potrei proseguire per ore. Certo, non tutte queste tecnologie sono esclusivamente legate alla fisica, ma nessuna di queste esisterebbe senza il contributo della Ricerca di base. Tecnologie, queste, che non erano minimamente nella testa degli scienziati, ma che abbiamo avuto sotto forma di utili effetti collaterali. Si stima che la Ricerca di base sia uno degli ambiti di investimento (legali, si intende) più remunerativi. Ecco quindi a cosa serve investire in Ricerca. Ecco cosa ne viene alla gente comune.
I problemi, però, sono tre.
Il primo è il saperlo spiegare alla gente. Se il CERN di Ginevra, donando il www al mondo, avesse messo la clausola “ai piedi di ogni pagina internet deve esserci scritto che è merito nostro”, forse ci saremmo risparmiati un po' di problemi.
Il secondo è il saper attendere. Come detto, le ricadute hanno tempi di gestazione di anni. Poche aziende sono propense ad investire in una tecnologia che darà i suoi frutti dopo 10 o 20 anni. Un governo, in Paesi come il nostro, tende a non seminare in tali campi, perché il merito della raccolta ricadrebbe sulle legislature future. Ma se un piano di investimenti e guadagni ventennale non lo fa uno Stato, chi deve farlo? La risposta è alla base degli scarsi finanziamenti.
Infine, il terzo problema è l'imprevedibilità. Nessun ricercatore ha mai un'idea chiara (spesso neanche lontanamente) di come il proprio lavoro andrà a migliorare la società. Alle volte non ce l'ha neanche di come andrà a migliorare le conoscenze scientifiche del proprio ambito di studio. Ed è questa imprevedibilità ad essere vista come un problema più che come un'opportunità, nonostante la Storia ci urli il contrario. Si narra che un giorno Faraday, uno dei principali studiosi dell'elettricità (quello a cui si deve ad esempio il fatto che quando un fulmine colpisce casa vostra voi non rimaniate fulminati), ricevette la visita di un ministro. Lo scienziato gli mostrò l'esperimento su cui stava lavorando. Alla domanda del ministro “Interessante, ma a che cosa serve?”, Faraday rispose gelidamente “Non lo so, ma scommetto che un giorno il vostro governo ci porrà sopra una tassa”. L'esperimento era quello che condusse all'invenzione della dinamo, per la produzione di energia elettrica. E la tassa, ovviamente, arrivò.