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In Sicilia c’è un sito archeologico abbandonato che è una vergogna nazionale

Vive nell’abbandono totale il sito archeologico di Erbe Bianche a Campobello di Mazara in Sicilia: un luogo importante quello in cui ci sono resti della media età del Bronzo, abbandonato a sé dalle Istituzioni.
A cura di Claudia Procentese
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Le peculiarità per essere un raro gioiello archeologico ci sono tutte. Dalla storia che ne fa uno dei più importanti siti della media età del Bronzo nel Mediterraneo al fascino della scoperta di un ripostiglio d’armi tra i più antichi di Sicilia. Eppure, già subito dopo lo scavo, una gestione non proprio virtuosa ha decretato il lento e  inesorabile declino degli antichi resti ad Erbe bianche, contrada del Comune di Campobello di Mazara in provincia di Trapani. Siamo nella “chora” selinuntina a circa tre chilometri dal mare. L’insediamento preistorico sorge su un banco di calcarenite, alle porte del paese adagiato nella valle del Belice, ed è stato indagato dagli archeologi in due campagne, nel 1992 e nel 1995, guidate da Sebastiano Tusa. Ad essere portate alla luce sono quattro capanne ellittiche, ricavate da cavità carsiche e disposte intorno ad un edificio circolare delimitato da buche di palo. Ma vengono fuori anche un forno e un’area cultuale all’aperto.

Il villaggio dell’età del Bronzo ricavato nel banco roccioso

Imboccando via Contrada Erbe bianche, periferia di Campobello, ci si trova subito di fronte ad un’ampia spianata di erba incolta ed è difficile accorgersi che lì sotto giacciono i resti archeologici. Deboli sono le tracce rivelatrici, niente che possa delineare in modo chiaro e netto l’architettura delle capanne a fossa adattate nel detrito della roccia calcarea. L’orografia circostante suggerisce un’istantanea senza tracce umane. E, invece, qui la terra ha restituito negli anni Novanta del secolo scorso armi in bronzo, ceramiche tra cui bacini su alto piede, teglie, piattelli, una coppa-incensiere, un colatoio, due frammenti di vasi egei, palchi di corna di cervo che attestano la vocazione pastorale del villaggio, tutti reperti oggi conservati presso il museo del Baglio Florio di Selinunte, ma mai esposti al pubblico. D’altronde, le stesse abitazioni ipogee, dopo lo scavo, sono state opportunamente occultate con coperture metalliche per scongiurare distruzioni o saccheggi, e così sono rimaste per trent’anni, quasi ringoiate dall’oblio del tempo. Intorno alle capanne non esiste alcuna recinzione protettiva, manca il cartello marrone che indichi la presenza di un bene storico-artistico, assente ogni tipo di segnaletica turistica.

La denuncia delle associazioni locali

"Il sito è completamente abbandonato – denuncia Antonino Gulotta, presidente della sezione locale di Archeoclub d’Italia -. Le capanne sono coperte con lamiere, avvicinandosi e spiando da qualche fessura si riesce ad intravedere poco. A novembre abbiamo organizzato con Legambiente un flash mob sul posto per sensibilizzare cittadini ed organi competenti, ma nulla è cambiato. Non ci sono indicazioni, un faro illuminante, nessuna vigilanza, la rete metallica è sopravvissuta solo in un tratto. Chiunque può entrare e fare ciò che vuole". Del resto cinque anni fa i lavoratori stagionali che, dall’Africa e dal Sud Italia, arrivano in questa zona per la raccolta autunnale delle rinomate olive, come la magnogreca dop Nocellara del Belice, occuparono le capanne dell’età del Bronzo e vi si accamparono tra immondizia ed eternit. Si gridò allo scandalo, attirando l’attenzione su un’area già sofferente per le vicende del dopo terremoto che devastò il Belice nel 1968 e trasformò questo pezzo di periferia a sud di Campobello in baraccopoli per gli sfollati. L’epos del migrante è andato, quindi, ad intrecciarsi con la storia antica e recente del territorio campobellese. Quest’ultimo è un susseguirsi di ordinati filari di ulivi, vigneti, agrumeti, mandorleti, in pianura a cento metri sul livello del mare (quello di Tre Fontane e Torretta Granitola), fino ad arrivare verso ovest alle Cave di Cusa dove la vegetazione si evolve a macchia mediterranea e dove gli abitanti di Selinunte estraevano le pietre per costruire le gigantesche colonne dei famosi templi. Lo stesso nome di Campobello conserva memoria del latino “campus belli”, campo di battaglia tra segestani e selinuntini, prima che i cartaginesi, alleatisi con i primi, conquistassero e distruggessero Selinunte nel 409 a.C. Paesaggi stratificati, dunque, quelli di Campobello di Mazara. A metà strada tra Castel Vetrano e Selinunte, territori noti per la bellezza naturale mozzafiato e, inutile nasconderlo, per una presenza carsica ed invasiva della criminalità organizzata, come riecheggia nelle news di cronaca fatte di inchieste ed operazioni su Cosa nostra trapanese e sulla “longa manus” del superlatitante Matteo Messina Denaro.

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Come nacquero gli scavi ad Erbe bianche

Ottantuno anni e l’energia di un ventenne, velocità di pensiero e passione, parla con competenza Nino, come accorciano da queste parti il suo nome, e si lascia andare ai ricordi. "Gli scavi – racconta il presidente di Archeoclub Campobello di Mazara – sono cominciati a seguito di segnalazioni fatte a Vincenzo Tusa, il padre di Sebastiano, all’epoca soprintendente ai Beni culturali. Anche io gli indicai, poiché suo amico, qualche posto interessante su cui poi Vincenzo fece alcuni saggi. Non sono un archeologo, ma un buon osservatore del terreno. Il suolo parla da sé. Un semplice ciottolo può rivelarsi frammento antico, pezzetto di manufatto distrutto dall’aratro, dalle frese agricole. Resta in superficie, si nota e ci ridà il filo della storia". Ad aprire il cantiere di scavo è, però, il figlio di Vincenzo, Sebastiano, anche lui valente archeologo, studioso di fama internazionale, primo soprintendente del mare della Regione Sicilia nel 2004 e che nel 2018 ricopre la carica di assessore ai Beni culturali dell’isola, ma muore tragicamente l’anno successivo. "Sebastiano – aggiunge Gulotta -, appena nominato assessore, mi disse ‘Nino, ho messo sul bilancio regionale i soldi per poter ultimare l’esproprio del terreno di Erbe bianche e recintarlo', poi sfortunatamente ci ha lasciato nella maledetta trasvolata e tutto è rimasto sulla carta". Sebastiano Tusa perde la vita, all’età di 66 anni, in un incidente aereo nei cieli d’Etiopia mentre si reca a Malindi per una conferenza internazionale organizzata dall’Unesco sulla tutela del patrimonio culturale subacqueo. Il corpo di colui che fu definito “l’archeologo gentile” riposa a Palermo, nella chiesa di San Domenico, accanto a quello del giudice Giovanni Falcone.

L’importanza del sito campobellese: le capanne sono un unicum

"Erbe bianche è il sito archeologico più importante della Sicilia occidentale per quanto riguarda il medio-bronzo – illustra dettagliatamente l’archeologo Fabrizio Nicoletti, stretto collaboratore di Sebastiano Tusa – e uno dei più importanti del Mediterraneo per tanti motivi. Innanzitutto per l’architettura delle capanne assolutamente unica, che trova confronto puntuale soltanto nel coevo insediamento ritrovato nell’ufficio tecnico comunale di Partanna. La singolarità sta in queste grandi vasche scavate in profondità, fino a due metri, in modo tale che poi la roccia sopra aggetti come a formare una volta, su cui veniva costruito un tetto. Insomma, capanne in parte scavate nella roccia e in parte costruite, peraltro molto grandi con un’area cultuale e piastre focolari, un villaggio molto articolato. Il secondo motivo è che qui sono stati trovati i più occidentali frammenti micenei della Sicilia. E, infine, in una delle capanne di Erbe bianche abbiamo scoperto il ripostiglio di armi in bronzo di un guerriero che comprendeva tre asce, una punta di lancia e uno spuntone, cioè un oggetto stranissimo che non abbiamo ben compreso cosa fosse. Il corredo del combattente era stato nascosto probabilmente nel tetto di una delle capanne che crollò". Le ceramiche rinvenute collocano l’insediamento tra la fine del Bronzo medio e il Bronzo recente, quindi 1300-1200 a.C., e sono riferibili ad una versione occidentale, ed in parte originale, della cosiddetta “facies” di Thapsos-Milazzese. "La facies è chiarissima – aggiunge Nicoletti -, è quella di Thapsos occidentale tarda, quella che io ho definito l’aspetto mediterraneo del Bronzo recente, cioè era una popolazione del Bronzo recente che aveva rapporti con il Mediterraneo orientale, una facies internazionale per intenderci. L’abitato era di una certa importanza, ma non ha avuto una lunghissima vita, all’improvviso successe qualcosa e nessuno è più tornato".

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Pagine indelebili di scavo con Sebastiano Tusa: la scoperta del corredo di guerriero

"Le campagne di scavo furono due – chiarisce Nicoletti –: nel 1992, dove si rilevarono gli indizi delle capanne e l’area sacrale, e nel 1995, la più importante, durò un paio di mesi e vi partecipai sotto la guida di Sebastiano". Sono trascorsi trent’anni, eppure Nicoletti, oggi funzionario della Soprintendenza di Catania, conserva intatti i ricordi dell’intero contesto di scavo. "Ho memoria di alcune baracche di terremotati vicino al nostro cantiere, ma anche di un capannone, ex deposito di mezzi meccanici durante la seconda guerra mondiale, da noi utilizzato per custodire le cassette dei reperti in attesa di essere trasferite". Prima di arrivare alle capanne preistoriche, viene scavata la necropoli sovrastante di epoca greca. "Erano tombe abbastanza povere, ma ricche di episodi umani – rievoca Nicoletti  -: bambini, madri morte di parto, fosse scavate sempre nel banco di calcarenite che all’inizio scambiavamo anche per capanne perché erano uguali". A nord chiude la contrada la cresta rocciosa chiamata Santo Monte, accogliendo invece le tombe a grotticella artificiale della necropoli dell’abitato preistorico. Indimenticabile il momento della scoperta del ripostiglio con le armi. "Ricordo ancora il giovane operaio, biondo e robusto, che stava scavando – racconta l’archeologo siciliano -, dà un colpo di piccone, eravamo al livello del crollo della capanna, quindi andavamo di grosso. Ad un certo punto, emerge l’immanicatura di quella che poteva essere una punta di lancia, io lo vidi subito perché ero davanti a lui. Appena emersa, il giovane si è fiondato per estrarla, stavo per dirgli ‘fermo', ma mi si è strozzato il grido in gola e lui ha estratto la punta di lancia preistorica come se fosse una spada nella roccia, l’ha letteralmente sguainata, brandendola in aria. Il cantiere impazzì, persi per un attimo il controllo dello scavo, tra giubilo ed applausi".

Le proposte per il futuro del sito

Il sito di Erbe bianche oggi dorme il sonno profondo di una trascuratezza imbarazzante. Cosa bisognerebbe fare per risvegliarlo? «Occorre innanzitutto collegarlo con quello delle Cave di Cusa, che distano circa tre chilometri – spiega Gulotta di Archeoclub -, realizzare un unico itinerario archeologico, ma anche turistico-culturale perché Campobello di Mazara è ricca di tesori». Romani, bizantini, arabi, francesi, spagnoli si sono avvicendati in questi luoghi. Hanno lasciato traccia come quegli uomini che hanno abitato le capanne di Erbe bianche. Ora lo scempio della dimenticanza pare tollerato anche da un’opinione pubblica distratta. «Da queste parti – tira le somme Nino con la sua saggia concretezza – si dice che con la cultura non si mangia ed è inutile e pericoloso denunciare gli abbandoni. Noi, invece, crediamo che difendere la nostra storia significa valorizzarla. E perciò creare ricchezza di spirito e risorse».

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