Sì, ci fregano le vignette. Ed è (anche) colpa nostra
I fatti in breve: all'indomani della strage di Parigi che è costata la vita, tra gli altri, ai vignettisti di Charlie Hebdo, il Corriere della Sera pubblica un instant-book (del costo di 4,90 euro) in allegato al giornale (1,50 euro) che raccoglie alcune delle vignette con cui disegnatori di tutto il mondo hanno espresso la loro solidarietà ai colleghi uccisi. Il libro in questione è un tomino di 300 pagine messo insieme in fretta e furia, e di pessima qualità: le vignette sono state evidentemente salvate dai social network e stampate in bassissima risoluzione.
Nessuno degli autori presenti nella raccolta è stato informato dell'operazione né ha dato alcuna autorizzazione alla pubblicazione del proprio lavoro da parte di terzi.
Ma cominciamo dalla fine, ovvero dal capolavoro di surrealismo (e di arrampicata sugli specchi) del direttore del CorSera Ferruccio de Bortoli:
In primis: pur ammettendo che i 4,90 euro dell'allegato vengano interamente devoluti a Charlie Hebdo, come la mettiamo con gli altri 1,50 euro del quotidiano e con l'operazione di immagine e branding condotta con l'uso di materiale rubato ad altri? Perché un autore di satira dovrebbe vedersi associato alla linea dettata da de Bortoli, che sul suo giornale ha scelto di pubblicare sì le vignette di Charlie Hebdo, ma non "le più offensive"? E in ultima istanza, perché il Corriere dovrebbe arrogarsi il diritto di decidere della beneficenza altrui nascondendosi dietro la giustificazione morale dell'"è per una buona causa"?
La questione dei diritti riconosciuti agli autori, poi, è ancora più grottesca. La pagina indicata da de Bortoli infatti reca questo disclaimer: "L'editore dichiara la propria disponibilità verso gli aventi diritto che non fosse riuscito a reperire."
Come a dire: guarda, davvero, ti assicuro che ti ho chiamato per avvertirti, eri tu che avevi il cellulare spento. E non è finita. A cose fatte e dopo l'esplosione delle polemiche, alcuni autori ricevono una mail in cui si legge che
[…]L’urgenza di rispondere in tempi rapidi per dare massimo sostegno alla libertà di stampa e solidarietà alla redazione di Charlie Hebdo potenziando la raccolta fondi, non ci ha permesso di rintracciare e contattare tutti gli aventi diritto già prima della pubblicazione […]. Anche per questo abbiamo inserito nella parte iniziale del libro la "nostra disponibilità verso gli aventi diritto che non siamo riusciti a reperire".
Ecco che emerge il vero "spirito" dell'iniziativa: Scusate, dovevamo muoverci in fretta per cavalcare l'onda mediatica dell'avvenimento, tra una settimana non fregherà più niente a nessuno. Però se mi dai il tuo indirizzo il libro te lo regalo, saluti alla famiglia e tante care cose.
Insomma, come nella migliore tradizione tutto finisce a tarallucci e vino; anzi, i disegnatori ne escono fuori addirittura in maniera ambigua: cosa pretendono questi matitari avidi ed insensibili, di farsi pagare per aderire ad un'iniziativa benefica?
La questione centrale, naturalmente, non è l'interesse personale o il denaro (anche se non ho dubbi che al Corriere la pensino davvero così, magari in buona fede), bensì il totale disprezzo per il lavoro creativo. E il comportamento del Corriere in questa sede è solo una dimostrazione evidente e macroscopica di una scuola di pensiero diffusa e radicata: quello che la professionalità di un disegnatore o un autore non valga quanto quella di un medico, un avvocato, un operaio, un commerciante. In Italia il lavoro creativo non vale quanto gli altri: non viene riconosciuto, figuriamoci poi tutelato.
Perché stupirsi del furto del Corriere quando esistono ancora "clienti" che propongono (ed autori che lo accettano, è bene ricordarlo) di essere pagati con la visibilità? La visibilità non esiste, non lo ribadiremo mai abbastanza. Un autore (disegnatore o meno) che voglia promuovere il proprio lavoro ha tutti i mezzi per farlo autonomamente: un blog, un sito internet, un portfolio online, la pubblicità sui social network. Chi propone visibilità in cambio di lavoro è un truffatore.
Io dico che, arrivati a questo punto, la colpa è nostra.
Perché non ci siamo indignati abbastanza quando ci chiedevano "E di lavoro vero cosa fai?".
Perché non abbiamo mai organizzato un'azione collettiva per contrastare, uniti, il proliferare di migliaia di "offerte di lavoro" offensive per la nostra dignità di professionisti e lesive per il mercato in cui lavoriamo, e il malcostume che da esse deriva.
Perché, al contrario di quanto accade in altri paesi, non ci siamo presi la briga di farci considerare una categoria di lavoratori, con diritti ed interessi comuni.
Perché c'è chi stamattina ci ha detto "Ma va là, in fondo in fondo sei contento di essere stato pubblicato dal Corriere."
D'altronde, si sa, gli artisti si nutrono di pane e (vana)gloria. Tutto dimenticato: riprendiamo le matite, torniamo pure alle nostre futili occupazioni, e lasciamo che l'attenzione del pubblico torni a concentrarsi sulle cose davvero importanti.
In fondo, a noi, non ha sparato nessuno.