Sentenza Mimmo Lucano: “Come posso dire a mio figlio che si condanna chi aiuta il prossimo?”
Era l’estate del 1998, quando sulle coste della Calabria, terra di mare, dei bronzi di Riace e dello strapotere internazionale della ‘Ndrangheta, cominciavano a sbarcare i primi stranieri provenienti dal mare ma da non molto lontano, quelle persone che poi verranno chiamate “vu cumprà”, “extracomunitari”, “clandestini”, “migranti” ma che per alcuni, purtroppo non sempre molti, hanno soltanto un nome: fratelli e sorelle. Erano 66 uomini, 46 donne e 72 bambini curdi.
Un giovane uomo calabrese, dalla pelle poco più chiara della loro, da allora detto “Mimmo o curdu” pensò: “Mentre vedevamo Riace Marina affollata durante la stagione estiva, Riace Superiore, la parte alta del comune, era addormentata, svuotata dei suoi abitanti partiti a lavorare al nord. E se questi profughi ci aiutassero a svegliarla? Se grazie a loro le vie potessero tornare alla vita? Se si potesse ancora sentire la gente parlare e i ragazzi ridere?» (tratto da "Mimì Capatosta, Mimmo Lucano e il modello Riace" di Tiziana Barillà). Forse con loro, fratelli e sorelle, si potrebbe salvare questa terra dall’aridità della solitudine e delle mafie. Insieme. Forse. Quel giovane uomo, è stato condannato a 13 anni e 2 mesi, oltre a una multa di 700.000 euro per "speculazione sulla gestione dei migranti" e altri svariati capi d’accusa. Quell’uomo, non più giovane, ovviamente, è Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, citato, nel 2016, dalla rivista Fortune tra le 50 personalità più influenti al mondo, per il modello di proposto nel piccolo borgo di Riace ormai famoso in tutta Europa.
“Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto". Queste parole di Don Milani mi risuonano in testa senza sosta sin da ieri pomeriggio, quando il mio piccolino grande, che ancora del mondo conosce poco ma oramai ha già l’età per cominciare a comprendere le cose del mondo, vedendomi turbato e nervoso, mi ha chiesto chi mi avesse fatto arrabbiare così tanto.
Ed è difficile dovergli rispondere sinceramente, con quella sincerità di cui io e la sua mamma – la mia ragazza – ci facciamo garanti come base fondamentale su cui si basa la nostra famiglia, anche a costo alle volte di mostrarci fragili ai loro occhi di bimbo e bimba: come posso dire a mio figlio che ho paura? Come faccio a spiegargli che una persona che ha speso la sua intera vita a beneficio degli altri, spesso sconosciuti, sia stato condannato a 13 anni di galera? La prigione, una delle cose più brutte e da cui i bambini e bambine restano sempre più impressionati nei loro racconti e giochi. Come posso dirgli che tutto quello che gli insegniamo giorno dopo giorno, è stato messo sotto accusa e condannato? Perché se lo facessi allora, che senso avrebbe tutto quello che facciamo e diciamo.
“La paura è vigliacca e se la guardi negli occhi quella si scioglie” è una frase del mio amico “poeta” e bluesman Folco Orselli che ripetiamo spesso ai nostri piccolini: ma guardando gli occhi di Mimmo Lucano, nelle interviste subito dopo la sentenza, che lucidi fissano un punto lontano mentre la sua voce scandisce piano: “È tutto finito”, è difficile pensare che quella nostra paura si sciolga. Anche perché la sua non è paura, è rassegnazione, sconfitta, qualcosa di molto peggio della paura: non c’è più speranza in quello sguardo.
L’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina era caduta sin da subito, le accuse di aver truffato lo Stato per arricchirsi non hanno senso visto che è un uomo che vive di pochissimo, che si presenta sempre con le stesse magliette logore, che vive in una casa piccolissima quasi in povertà, che non aveva nemmeno i soldi per pagarsi un avvocato – e ne avrebbe chiesto uno d’ufficio se non si fosse offerto Giuliano Pisapia – , un uomo che ha passato la sua vita intera in un piccolissimo borgo abbandonato e avrebbe continuato ad essere abbandonato e poi dimenticato se non fosse stato per lui e molto probabilmente come dicono avvocati e giornalisti esperti in materia, tutte le accuse cadranno in terzo grado, visto che già durante questo processo vi era evidenza dei fatti: ma allora perché tutto questo?
Come faccio a spiegare a mio figlio che in questo paese le buone azioni vengono massacrate? Come posso dirgli che viviamo in un paese in cui chi combatte la mafia viene ucciso a colpi di pistola, di tritolo o a colpi di condanne a 13 anni, mentre chi con le mafie fa affari di ogni sorta viene assolto, prosciolto, elevato di grado e carriera, e in alcuni casi addirittura proposto come Presidente della Repubblica. Come posso dirgli che ho paura che tutto questo non cambi mai? La condanna a Mimmo Lucano ha il sapore di un monito, un vecchio luogo comune che racconta questo paese come immobile, immutevole, perennemente governato dalla mafie e chi prova a cambiarlo, in un modo o nell’altro, fa sempre una brutta fine: Peppino Impastato, Giuseppe Pino Pinelli, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giacomo Matteotti eccetera, eccetera e purtroppo ancora eccetera.
Poi però, mentre mi faccio largo fra la marea di merda che mi travolge leggendo sui social i commenti alla notizia della condanna di Mimmo, là dove l’essere umano dà libero sfogo della sua più nascosta disumanità e vigliaccheria, mi arriva il messaggio di un “amico”, un mio follower per usare un inglesismo a caso, che mi inoltra la “Relazione ispettiva del gennaio 2017, redatta a seguito di attività ispettiva svolta il 26 gennaio 2017” Prefettura di Reggio Calabria, Ufficio territoriale del Governo.
Dopo una lunga narrazione dei luoghi, vicoli, botteghe, case e scorci di Riace il relatore conclude dicendo: “Questi (Mimmo Lucano) è un uomo che ha dedicato all’accoglienza buona parte della propria vita, combattendo battaglie personali e raccogliendo riconoscimenti internazionali di assoluto prestigio. Vive in una realtà ricostruita, che non appartiene alla storia del paese ma che ha realizzato mattone su mattone, con fatica e impegno. L’evolversi dell’esperienza ha comportato difficoltà ulteriori, probabilmente non previste ed ha reso impossibile, presumibilmente, un controllo ferreo di tutte le attività svolte. Ciò ha evidenziato le pecche del sistema, individuate in precedente relazioni, che denotano la necessità imprescindibile di attuare degli impegni opportuni e immediati mezzi correttivi. Si ritiene che l’esperienza di Riace sia importante per la Calabria e segno distintivo di quelle buone pratiche che possono parlare bene di questa Regione.”
Dopodiché mi sono seduto, piano, ho chiamato il mio piccolino grande che si chiama Libero, e non a caso, l’ho guardato negli occhi e ho risposto alla sua domanda: “Sì piccolo, hai ragione: sono proprio arrabbiato oggi, perché hanno fatto una cosa brutta ad una persona buona. Ma non importa quello che gli hanno fatto adesso, vedrai che si metterà tutto a posto. Ti ho chiamato perché voglio raccontarti una storia piccola, la storia di Riace e del signor Mimmo Lucano". E in quel momento non avevo più paura, perché ora sapevo che un giorno ci saranno altri dieci, cento, mille Mimmo u curdu e quel che facciamo, l’esempio che lasciamo, non può mai essere vano. Questa condanna servirà soltanto a far sì che la storia di Riace venga raccontata ancora, ancora e ancora. È vero, ho guardato la paura negli occhi e la paura si è sciolta.
"Quando l'ingiustizia diventa legge, la resistenza è un dovere".