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Opinioni

“Sei” di Scimone e Sframeli è una lezione su come mettere in scena Pirandello senza soccombergli

Al Napoli Teatro Festival Italia diretto da Ruggero Cappuccio è andato in scena, con gran successo di pubblico, “Sei” di Scimone e Sframeli, adattamento di “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello. Ne viene fuori una pièce che riunisce il linguaggio teatrale della compagnia siciliana con la lingua del grande maestro.
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Foto di Gianni Fiorito
Foto di Gianni Fiorito

Da anni vado trastullandomi, probabilmente errando, su un totem che accompagna ogni mia analisi preventiva di cartellone di teatro o festival più o meno stabile della nostra penisola che presenta al suo interno un titolo del premio Nobel siciliano: "Pirandello non si può mettere più in scena, al di là della genialità è un codice consunto, i nostri attori e registi ormai ne colgono solo la linea classica, defunta, netta e borghese come la loro estrazione…".

Invece un giorno succede, dopo un passaparola viaggiato alla velocità della luce in questi giorni tra addetti ai lavori e pubblico più attento di quest'edizione del Napoli Teatro Festival Italia diretto da Ruggero Cappuccio, di andare a teatro investendo sulla fiducia che da sempre è cosa buona e giusta riservare negli spettacoli della Compagnia Scimone Sframeli (che lo scorso anno con la pièce "Amore" si era distinta per il trionfo agi Ubu) e scoprire che non solo il teatro di Luigi Pirandello è ancora rappresentabile, ma che lo può essere con esiti straordinariamente positivi e, soprattutto, senza smettere di portare in scena il proprio linguaggio.

Come succede a "Sei" di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, costituito dai tipici orizzonti metafisici e reiterazioni verbali dal tono infantile e poetico del loro teatro, su una scena sapientemente disegnata dall'artista Lino Fiorito e con un contrappunto in salsa sicula che oscilla tra contemporaneità e passato, tra fiaba e realismo da "Bar", senza mai perdere di vista l'amore verso il modello. Quei "Sei personaggi in cerca d'autore" di Luigi Pirandello liberamente adattato da cui, come tutti i maestri, ci si è accortamente tenuti lontano per tutta la carriera. Fino a oggi. Quando il duo siciliano di "Nunzio" e "Giù" ha intrapreso la via della riscrittura prendendo il padre, mutilandolo dove necessario, rispettandolo senza incensarlo, giocandolo sempre sul crinale della leggerezza a un passo dalla soglia del dramma.

Il grido di dolore de La Madre, interpretata da Giulia Weber, al cospetto de La Figlia affogata nella classica scena del giardino, tanto per fare un esempio, ci trapassa di dolore, rubandoci dalle labbra la risata che un'istante prima come spettatori avevamo incarnato seguendo lo svolgersi del filo umoristico generato dalla dinamica del teatro nel teatro di matrice pirandelliana. Ma soprattutto lo fa concedendo alla compagnia di restare in fondo in fondo se stessa, con quell'aria da proletari meridionali sempre un po' confusi sullo sfondo, come suggerisce la prossemica di Francesco Sframeli nella scena del bordello in cui Il Padre sta per andare a letto con La Figliastra (Zoe Pernici). Quasi a incarnare una sorta di dimensione primitiva e innocente, ferina quanto basta, di una Sicilia e di un Sud forse mai esistiti, nemmeno in Pirandello, in cui il cast (oltre ai già citati, Gianluca Cesale,  Salvatore Arena, Bruno Ricci, Maria Silvia Greco, Mariasilvia Greco e Miriam Russo) sembra trovarsi perfettamente a proprio agio in quel Teatro San Ferdinando che fu di Eduardo De Filippo.

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Scrittore, sceneggiatore, giornalista. Nato a Napoli nel 1979. Il suo ultimo romanzo è "Le creature" (Rizzoli). Collabora con diverse riviste e quotidiani, è redattore della trasmissione Zazà su Rai Radio 3.
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