“Lasciatemi cantare”: così cantava nel 1983, proprio sul palco di Sanremo, Toto Cutugno, con un successo destinato a diventare subito internazionale. Richiamandomi a Cutugno, vorrei che lasciaste per un attimo cantare anche me. Fuori dal coro, s’intende. Per prendere posizione sul festival di Sanremo. Per prendere posizione non sulla qualità della musica, degli arrangiamenti e delle sfilate (ché, del resto, non ne avrei gli strumenti), bensì sul fenomeno sociale festivaliero.
Immaginiamo, per un attimo, che Antonio Gramsci tornasse in vita e potesse assistere al festival condotto dalla De Filippi e dal signor Conti. Sicuramente una sezioncina – piccola piccola – dei “Quaderni del carcere” la dedicherebbe al festival della canzone italiana come fenomeno di massa. In termini gramsciani, credo che la questione fondamentale da porre in relazione al festival sia la seguente, che così vorrei impostare: vi sono due modi di “andare al popolo”.
V’è un primo modo, che è poi quello prospettato e valorizzato da Gramsci, e consiste nel tentativo di innalzare il popolo italiano, di trarlo dalla propria atavica passività e dalla propria secolare ignoranza: di modo che possa attuarsi una “riforma intellettuale e morale” – parola di Gramsci – tesa a produrre un progresso sociale collettivo.
Si dà, poi, un secondo modo di andare al popolo, ed è quello che i “Quaderni del carcere” attribuiscono alla Chiesa cattolica: è il modo di chi va al popolo non per innalzarlo, bensì per mantenerlo programmaticamente nella sua condizione di arretratezza patologica. In modo che il popolo mai si ridesti e possa maturare propositi poco coerenti rispetto all’ordine stabilito. Insomma, una funzione ad alto tasso conservativo, il cui fine ultimo – ci suggerisce Gramsci – è il mantenimento della condizione data, fondata sulla passività e sull’ignoranza delle masse popolari. È, in fondo, lo stesso risultato ottenuto, sia pure per via diversa, da chi non va per nulla al popolo, lasciandolo nella propria condizione.
Ora, credo si possa ragionevolmente sostenere che il festival di Sanremo assolva alla seconda e non alla prima funzione: il suo andare al popolo – a milioni di italiani, letteralmente – non genera “progresso intellettuale di massa”, ma “morfinismo politico”, ebete adattamento, distrazione rispetto alle contraddizioni reali, spettacolarizzazione virtuale e anestetizzazione delle coscienze. Dirotta la rabbia gravida di buone ragioni degli oppressi verso lo spettacolo edulcorante televisivo. Per questo – un consiglio non richiesto – suggerisco a tutti di spegnere la televisione.