Se Caravaggio disegnasse con una Bic
Se Caravaggio fosse nato oggi, alle falde del Vesuvio, e avesse avuto a sua disposizione solo una penna Bic, cosa ne sarebbe saltato fuori? È una domanda bizzarra, ma senz'altro curiosa, che si presta a infinite possibili congetture. Chissà, forse avrebbe rifiutato il figurativismo. Forse sarebbe stato un artista concettuale, o un minimalista. Forse avrebbe tempestato le sue Bic di diamanti, o le avrebbe messe in formaldeide. Oppure si sarebbe dedicato con impegno al ritorno del realismo, all'iperrealismo, e a tutte quelle correnti oniriche e neo-surrealiste che hanno costellato la scuola napoletana degli ultimi vent'anni.
Di certo non possiamo saperlo, ma c'è chi, all'ombra del Vesuvio, con la sua tecnica povera e innovativa, Bic su tela, può fornirci una delle possibili risposte, con la sua impronta caravaggesca e quella visceralità che, immersa quotidianamente nel nero della pietra lavica, sceglie di far emergere le sue figure proprio da quel nero primigenio.
L'artista di cui parliamo è Mariarita Renatti. Il suo, per forza di cose, non è un tratto deciso, definito, bensì una serie di piccolissime e infinite righe di colore, sovrapposte con un lavoro maniacale e instancabile. Il colore si sedimenta lungo interminabili sessioni di lavoro, che regalano al fondo un corpo e una profondità spaventosa, quasi incredibile per un lavoro realizzato interamente con la penna.
I soggetti che ritrae sono per lo più donne dalle espressioni caricate, estreme, che strizzano l'occhio proprio a quella scuola caravaggesca che nei primi anni del ‘600 rivoluzionò la tecnica e la sostanza pittorica in tutta la Campania. Si tratta soprattutto di autoritratti e raffigurazioni familiari, con una predilezione per la figura della madre e della donna anziana (i cui modelli sono proprio la madre e la nonna di Mariarita).
Quadri come "Rinascita" e "Rientro", dal fortissimo impatto emotivo, fanno dialogare due autoritratti dell'artista, che da sola si partorisce e ritorna al suo stesso utero. In "Lana nera" una crocifissione di una donna anziana, con nelle mani ferri da maglia al posto dei chiodi, lega indissolubilmente con un filo da cucito due figure in un torturante vincolo genetico. Ancora "Labora" rivisita il nesso tra la donna sarta e l'autoritratto dell'artista, questa volta accucciata in posizione fetale ai piedi della madre.
In "Fu lei" una maschera primitivista è un netto omaggio alle "Demoiselles" di Picasso, mentre in "Quo vadis" l'iperrealismo della Renatti si supera in una rappresentazione delle gambe e delle braccia di sua nonna, galleggianti nel profondo nulla del nero circostante.
Il Caravaggio si riscopre un riferimento costante della giovane artista vesuviana nella scelta delle pose religiose, nell'espressività dei volti, nell'esposizione a una luce drammatica e teatrale e, perché no, anche nel probabile scalpore che alcuni dettagli potrebbero suscitare oggi, così come, all'epoca del Merisi, risultarono scandalosi alcuni soggetti fortemente popolari ritratti in opere sacre. Il ghigno, lo sberleffo, la smorfia di dolore presenti in "Giuditta e Oloferne", nella "Decapitazione di San Giovanni", nel "Davide con la testa di Golia" e nella "Medusa" sono facilmente ravvisabili in alcune scelte plastiche dei soggetti della Renatti.
Ma, naturalmente, non c'è solo Caravaggio in questi disegni. La violenza e la crudezza di alcuni ritratti possono rievocare lavori di Frida Kahlo, la deformazione dei volti talvolta sfocia in piccoli omaggi a Francis Bacon, nonché nel dettaglio delle babbucce indossate dalla Madonna non possiamo che andare con la mente alle provocazioni pop di Jeff Koons. Un insieme di riferimenti e di simboli, dunque, che, misti alla sapiente tecnica e alla spiccata manualità, fanno di Mariarita Renatti una piccola promessa della produzione artistica contemporanea. Non possiamo che augurarle una lunga strada di successi aspettando la sua prima personale a Milano il prossimo 30 aprile.