Samuel Beckett: 30 anni fa moriva l’autore di “Aspettando Godot”
Il critico teatrale Peter Brook disse di lui: “Infastidisce sempre per la sua onestà”. E, parlando di Samuel Beckett, cosa può esserci di più onesto del vuoto, del nulla, dell’immobilità senza tempo del suo teatro per descrivere la società a lui contemporanea? Il grande drammaturgo irlandese, Premio Nobel per la letteratura nel 1969, non è stato grande solo a teatro: con i romanzi, e il suo unico film interpretato non a caso da un altrettanto assurdo Buster Keaton, ha davvero rappresentato la Vita nell'arte. Oggi, a trent'anni dalla sua scomparsa, avvenuta a Parigi il 22 dicembre 1989, e impossibile non tornare a parlare di lui.
L’assurdo di Beckett: il racconto del vuoto
Samuel Beckett è riconosciuto, insieme ad Eugéne Ionesco, uno dei massimi esponenti di quello che il critico Martin Esslin chiamerà “teatro dell’assurdo”. Un’assurdità che nel teatro rispecchia quella della vita quotidiana contemporanea, che nel caso di Beckett non si limita solo a mettere in scena il non essere dell’esistenza, ma disintegra e azzera totalmente qualsiasi tipo di interazione interpersonale fra i personaggi, e fra loro e lo spazio e il tempo del dramma: i protagonisti di Beckett non comunicano, come lo stesso sviluppo narrativo sembra non comunicare niente.
Vladimir ed Estragon, due uomini che non conosciamo, aspettano invano Godot, il terzo personaggio, che non arriva mai. Una strada di campagna, un albero, e la sera: ma quale campagna, che tipo di albero e la sera di quale giorno dell’anno, non ci è dato saperlo. Partendo da Joyce, punto di riferimento letterario costante per Beckett, egli distrugge dalle fondamenta l’idea stessa di teatro per ricrearne subitaneamente una nuova realizzando, come spiegò Vivian Mercier, “il teoricamente impossibile, un'opera in cui non succede nulla, ma che tiene incollati gli spettatori ai loro posti. In più, considerando che il secondo atto è una ripresa leggermente differente del primo, ha scritto un'opera in cui non succede nulla, due volte”. O come disse lo stesso Samuel Beckett:
Il vuoto. Come tentare di dirlo? Come tentare di fallirlo? Senza tentare di non fallire. Dirlo soltanto.
Beckett e quel Premio Nobel mai ritirato
Nel 1969 l’Accademia svedese assegna il Premio Nobel per la letteratura ad un Samuel Beckett che aveva già lasciato il suo pubblico senza parole con “Aspettando Godot” e “Finale di partita”, rappresentati per la prima volta rispettivamente nel 1953 e nel 1956, e con la trilogia letteraria di “Molloy”, “Malone muore” e “L'innominabile”. Nella motivazione diffusa dal comitato del Nobel si legge, “per la sua scrittura, che – nelle nuove forme per il romanzo ed il dramma – nell'abbandono dell'uomo moderno acquista la sua altezza”.
All'annuncio, si racconta, Beckett reagì con un “bene. D’accordo”. In seguito si dirà turbato da una scelta che, secondo lui, sarebbe dovuta ricadere già molto tempo prima sul suo riferimento letterario principale, James Joyce, perché egli a differenza sua “avrebbe saputo cosa farne”. Nella riservatezza che sempre lo ha contraddistinto, Samuel Beckett non si presentò a ritirare il Premio nella consueta cerimonia di premiazione, mancando di pronunciare l’altrettanto tradizionale allocuzione di ringraziamento, lasciando all'editore Jerome Lindon il compito di ritirare pergamena e medaglia d’oro.
Beckett oltre Godot: l’assurdo al cinema
Samuel Beckett è indubbiamente uno dei più famosi autori di teatro del XX secolo, e la sua fama è legata al successo di capolavori come “Aspettando Godot”, “Finale di partita” e “Atto senza parole”. Ma oltre al teatro l’irlandese seppe in modo camaleontico riversare tutta la sua filosofia dell’assurdo in modo altrettanto emblematico e completo anche nel romanzo (ne scrisse in tutto otto), nei numerosi racconti e nelle poesie pubblicate fino all’anno prima della sua morte.
Ma il Beckett più affascinante è forse quello legato al mondo del cinema: nel 1964 l’autore scriverà di suo pugno la sceneggiatura per il cortometraggio diretto da Alan Schneider dal titolo “Film”, in cui compare un ormai dimenticato Buster Keaton. La struttura della pellicola segue minuziosamente l’idea che Beckett aveva sempre avuto del teatro: vuoto, incomunicabilità, con un certo dato di angoscia rispetto alla solitudine dei protagonisti che forse in Godot non si era ancora vista.
Esse est percipi. Soppressa ogni percezione estranea, animale, umana, divina, la percezione di sé continua ad esistere. Il tentativo di non essere, nella fuga da ogni percezione estranea, si vanifica di fronte all'ineluttabilità della percezione di sé,
disse Beckett sul suo film. Protagonisti senza nome, regole ferree nel movimento della macchina da presa e nessun riferimento temporale che aiuti in qualche modo a tenere la vicenda ancorata alla realtà. Un’ambizione molto alta, quella che Beckett aveva nei confronti di questo lavoro, soprattutto sulle enormi potenzialità che la tecnica cinematografica avrebbe potuto far assumere alla narrazione: a lavoro concluso però, Samuel Beckett si dichiarò totalmente insoddisfatto del risultato.