Sabrina Efionayi: “Da piccola pensavo di essere bianca, i libri mi hanno aiutata a determinarmi”
Sabrina Efionay è una scrittrice di Castelvolturno, nata da madre nigeriana ma cresciuta da una famiglia del luogo, che se n'è presa cura fin dai suoi primi giorni di vita. La sua storia l'ha raccontata lei stessa nel libro "Storia del mio nome", pubblicato da Einaudi e in un podcast ricavato proprio da quel testo. Quella di Efionay è la storia di vari amori e della conquista non semplice della propria identità, del percorso di una bambina, poi una ragazza e poi una donna nera in un mondo prevalentemente bianco che percepisce in questo biancore la normalità. A Fanpage.it la scrittrice ha raccontato come è nato il libro, parlando di come ha cominciato a costruirsi la propria identità e di razzismo.
Sabrina ci racconti la tua storia e quella del tuo libro?
Sono nata a Castelvolturno da una madre nigeriana, questa ragazza giovanissima, più giovane di me, oggi, che ho 23 anni. Quando arrivò in Italia dalla Nigeria era poco più piccola di me, era vittima della tratta della prostituzione e fu costretta a vendere il suo corpo. Quando si innamora e rimane incinta di me è ancora rinchiusa tra quelle mura, in quella casa e fa quello che oggi definisco un gesto di estremo coraggio, ma anche di sacrificio: lei attraversa la strada con tra le braccia questa bambina di 11 giorni e mi lascia tra le braccia di un'altra donna, una donna italiana, napoletana, che si chiama Antonietta e da quel momento diventa la mia seconda madre. A partire da quell'istante la mia vita si divide tra due culture, due storie, due lingue e cresco in questa famiglia napoletana che mi ama alla follia, ma al tempo stesso percepisco sempre la mancanza di mia madre Gladys, percepisco la sua mancanza perché avevo bisogno, soprattutto quando ero bambina di una persona che mi preparasse a cosa significa essere una bambina, una ragazzina e successivamente una giovane donna nera in Italia. E quando mi rendo conto che questo grandissimo vuoto che non è dovuto alla mancanza d'amore, ma di rappresentanza, inizio a colmarlo scrivendo.
Raccontare la tua storia può essere stato il tuo modo di regalare un mezzo a persone come te per rappresentarsi e sentirsi rappresentati?
Questo libro nasce nel 2020, abbiamo la questione di George Floyd, di Willy, ed ero letteralmente circondata da persone che parlavano a nome di altri e i soggetti della questione non venivano mai presi in considerazione, quindi per me era importante, a un certo punto, fermare tutto e voler testimoniare qualcosa, dire qualcosa. Io tra l'indecisione e il rischio di non essere né nigeriana, né italiana e quindi di non essere nessuna, decido di essere me stessa. È questo il messaggio che cerco in ogni modo di mandare tantissimo anche ai ragazzi, sia delle persone delle seconde generazioni ma non solo.
Nella quotidianità come la colmi quella mancanza?
Quando ero piccola mi sono convinta per un periodo – ed è stato triste constatarlo dopo – che fossi bianca. Vidi una foto di questa bambina che si chiamava Sabrina – io avevo circa 7 anni e lei 12, con gli occhiali, quindi completamente diversa da me – ed ero convinta che fossi io e continuavo a dire in giro che in realtà prima ero bianca e questo, quando sei bambina, ti rendi conto di farlo per difesa, per sopravvivenza. Io avevo la necessità e il bisogno di colmare questa cosa qui. A 16 mi fu regalato un libro, "Americanah" di Chimamanda Ngozi Adichie, ed è stato il primissimo libro di una scrittrice nigeriana che non fosse semplicemente scritto da una persona nera, ma che aveva come protagonisti dei personaggi neri. E questo libro mi ha aperto un varco su questa visione.
Cosa ne pensi del monologo di Paola Egonu al festival?
È stato sicuramente importante rivedere un'Italia diversa, che c'è ma fa fatica a emanciparsi, a mostrarsi per quello che è e quello che vale, vedere una donna nera, bellissima, sul palco di Sanremo è stato molto emozionante e potente. Per il futuro mi auguro che Paola possa essere invitata sul palco di Sanremo a parlare di Sport, perché il vero cambiamento – che funzionerà in maniera radicale – sarà quando vengo invitata per parlare di quello che faccio e non di quello che sono.
Reputi che l'Italia abbia cominciato ad accogliere i temi di cui parli?
Credo di essere arrivata a una conclusione, che nel 2023 non ci si può più permettere di essere ignoranti, credo che ci sia stata una grandissima differenza anche solo rispetto a 5-10 anni fa, sull'attenzione che si dà a determinate tematiche. Se dovessi riporre tutte le mie speranze future punterei sui giovani, sui ragazzi, sui miei coetanei e quelli più piccoli. Perché c'è un'attenzione anche sui cambiamenti climatici, su ogni tipo di discriminazione che è nettamente diversa.
Pensi che l'Italia sia un paese in parte razzista?
Non credo che l'Italia sia tutta razzista anche perché sarebbe impossibile per me viverci. Penso che che ci siano delle mancanze e che il fatto stesso di non volerlo accettare, di dire che l'Italia non è un paese razzista e che io dovrei essere grata, non renda un paese migliore rispetto a un altro. Una cosa che ho imparato a fare quando ero bambina, quando mia madre mi paragonava agli altri, è che dovevo guardare a quello che faccio io, quindi anche la storia che in un altro paese si stia meglio o peggio a un certo punto non funziona più. L'Italia non è un paese completamente razzista ma sicuramente ha bisogno di abbracciare tutti i suoi figli.