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Roberto Saviano racconta il Maxiprocesso: “La mafia non uccide come prima, ma esiste ancora”

Nel podcast Audible sul Maxi processo alla mafia, Roberto Saviano racconta un momento fondamentale per la Storia del Paese e a Fanpage racconta quel periodo e cos’è oggi la mafia.
A cura di Francesco Raiola
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Roberto Saviano
Roberto Saviano

Un giudice che fa yoga e accetta il Maxi processo dopo che dodici colleghi avevano rifiutato, un pentito che ha bisogno di un interprete a causa del siciliano troppo stretto, un killer che sfugge a un agguato notando un uomo al balcone, gente sciolta nell'acido, cimiteri sommari, poi anche i giudici, Falcone e Borsellino, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Tommaso Buscetta, insomma, i nomi noti della storia mafiosa e del Paese. Sono tutti protagonisti di "Maxi – il processo che uccise la mafia", il podcast Audible in cui Roberto Saviano racconta il processo che mise alla sbarra il gotha della mafia italiana, dopo anni di sangue e stragi, di collusione con lo Stato: come nasce la mafia, come cambiano i codici, come si arriva a processare coloro che a un certo punto sembravano detenere il potere nelle mani, potere conquistato con il sangue e con centinaia di vittime.

In che senso il maxi processo ha ucciso la mafia?

Nel senso che dopo quel processo tutto cambia per sempre, nel mondo, quindi uccidere la mafia significa, per la prima volta, che quella mafia riceve un colpo mortale. È una provocazione, ma serve anche a storicizzare il momento: la mafia corleonese riceve un colpo mortale e tutto quello che fa successivamente, che sembra un comportamento da vincente, con la supponenza di un gruppo che pensa di essere intoccabile, sono invece continui colpi di coda.

Nel senso che gli omicidi dopo il processo sono l'inizio della fine?

La morte di Salvo Lima, di uno dei fratelli Salvo, Ignazio, sono tutti elementi legati al maxi processo. La cosa è strana perché quando ho proposto questa cosa la percezione era sì di un processo importante, ma non di un processo che avesse determinato i 12 anni successivi alla sentenza definitiva, perché da lì in poi le cose cambiano per sempre. Le organizzazioni, infatti, sono sempre convinte di ricevere condanne che poi in secondo grado in Cassazione più o meno riesci a ridurre.

E nel secondo grado di quel processo era stato così, no?

Sì, ma in verità non era stato così male, infatti Falcone era felicissimo della possibilità che la struttura portante del processo fosse conservata. Erano state tagliate moltissime condanne, ma non erano stati negati i presupposti giuridici del processi, per cui potevano negare, come successe al processo di mafia Capitale, l'esistenza di una struttura unitaria e accettare qualche singola condanna. Invece lì no, lì questa struttura viene riconosciuta ed era l'intento del pool antimafia.

La vera paura era per la Cassazione, giusto?

Sì, tutti temevano Carnevale, il cosiddetto giudice amazza-sentenze, ma non è lui che prende in mano il processo e le cose cambiano.

Una figura importante in quel processo è quella di un giovane Ayala.

Ayala aveva vissuto il processo come accusa, perché Falcone e Borsellino erano giudici istruttori, quindi non potevano partecipare al processo. C'era questa istituzione, ora cancellata, che era il giudice istruttore che curava l'inchiesta mentre l'accusa è un ulteriore passaggio, riceve gli atti dell'inchiesta, li rivaluta e decide cosa portare in sede dibattimentale. Se esistesse ancora avrebbe evitato un sacco di follie portate in dibattimento in questi anni.

C'era molta paura prima del processo.

Certo, erano tutti anche terrorizzati dalla fuga di notizie. Ma questo è un processo incredibile: il Giudice Alfonso Giordano che venendo dal civile accetta l'incarico dopo che una dozzina di magistrati, legittimamente, avevano avuto paura di essere avvicinati, anche perché molti erano stati ammazzati: Gaetano Costa, Pietro Scaglione, Cesare Terranova, Rocco Chinnici. C'erano tutte le ragioni per sottrarsi.

Infatti succede che al secondo grado qualcun altro viene ammazzato

Sì, al secondo viene ammazzato il Giudice Livatino, poi ammazzano Scaglione che avrebbe gestito il secondo grado.

Perché Giordano non viene ammazzato?

Non viene ammazzato perché Giordano ha già fatto. Se tu ammazzi Giordano convalidi l'assetto del processo: non è un caso che poi mettono mano al secondo grado prima che parta.

Però se ammazzano Giordano, il processo sarebbe ripartito daccapo, no?

Sì, ma questa cosa gli viene impedita: per tutta la durata del dibattimento sono rinchiusi nell'aula bunker di Palermo. Ma c'è anche un altro dettaglio, loro sono convinti di essere assolti o di avere condanne lievi, tanto è vero che non commettono nessun omicidio nel percorso di tutto il processo. Nessuno ha pensato neanche minimamente di ucciderlo, in più Giordano viene anche messo in sicurezza, ma nessuno pensa di ucciderlo, perché sono convinti che l'understatement sia fondamentale. Vietano i furti, vietano le faide, tolgono qualsiasi diatriba.

Ammazzarlo dopo non poteva essere un messaggio per dire: "Se ci condannate fate questa fine"?

Certo, ma il problema è il giudice inquirente non il Presidente del Tribunale.

Però in tanti si rifiutarono…

Perché temerono minacce e di essere avvicinati. Anche se non erano inquirenti, hai comunque paura, perché quella era una mafia sanguinaria e non potevi sapere cosa sarebbe potuto succedere. Per esempio, era impensabile toccare Buscetta: se ammazzi un pentito tutto quello che ha detto lo rendi valido. I pentiti non vengono mai ammazzati, succede solo quando stanno per pentirsi, gli ammazzi i parenti quando non hanno detto tutto, così da fermarli, ma mai vengono uccisi dopo aver fatto dichiarazioni, perché a quel punto le dichiarazioni puoi solo smentirle ed è più facile farlo con lui in vita. Il pentito morto è la prova regina dell'accusa che quello che stava dicendo era vero. Nonostante questo Buscetta viene portato in aula dietro dei pannelli di vetro antiproiettile: ma perché, quindi, se in aula può entrare solo gente disarmata? Perché temevano che qualche poliziotto corrotto potesse ucciderlo, quindi che chi era autorizzato a essere armato o fosse fake o corrotto.

Anche la storia dell'aula bunker è interessante, specchio di un'epoca.

Certamente, il bunker viene costruito tenendo presente l'anfiteatro greco, tutti devono vedere il palco del Tribunale, devono esserci le gabbie, poi deve essere impenetrabile a RPG, bazookate, cannonate, perché temevano che Cosa nostra potesse fare quello che Escobar aveva fatto con i Tribunali a Medellin mentre decidevano della sua estradizione.

A posteriori fa impressione pensare che ‘è stato un periodo in cui si pensava che un tribunale potesse essere preso d'assalto a bazookate.

Da allora in poi tutte le aule diventano bunker, una scelta che è simbolica, in quel momento era solo pratica. Anche la scelta del Maxi processo fu pratica, perché nel tempo, quella di accorpare centinaia di casi in una, non si rivelerà una pratica sana. A quell'epoca, però, non solo era sana, ma vincente, perché l'obiettivo era dimostrare che ci fosse l'unitarietà dell'organizzazione.

Quanto tempo ci avete messo per organizzare questo lavoro enorme?

Tantissimo, e meno male che con me c'è stato Massimiliano Coccia, perché la massa di audio originali era infinita: interrogazioni, risposte, litigi, situazioni paradossali, come quando Totuccio Contorno, vero soldato di mafia che dormiva sugli alberi per paura che lo assassinassero, non viene compreso perché parla siciliano stretto, mentre il trafficante di Singapore che parla un italiano smozzicato viene perfettamente compreso. Non chiedono un traduttore per il singaporiano, ma lo chiedono, ottenendolo, per il siciliano.

Qual è una delle scene più importanti per te in quel processo?

Senza dubbio il confronto tra Buscetta e Pippo Calò, quello è un confronto veramente incredibile. O la scena in cui Pippo Calò dice che è colpa del Padrino, tutte cose che torneranno nella mia vita, che è colpa della rappresentazione cinematografica, ma già lo diceva Calò, poi ci sono le donne che urlano contro la Corte perché dicono che i loro mariti non si sono pentiti, o i prigionieri in gabbia che si cuciono la bocca…

Oggi che ne sentiamo parlare di meno, cosa è diventata la mafia?

La mafia siciliana è un'organizzazione che questo processo e la grande attenzione mediatica ha messo davvero in crisi. La ragione è legata a una scelta sanguinaria e terroristica. L'organizzazione a un certo punto ha minacciato la tenuta dello Stato e quindi lo Stato è stato costretto ad agire come non agisce contro le altre organizzazioni che invece sono in lotta solo con una parte di esso. La scelta terroristica corleonese si basa anche su una consapevolezza di avere i gangli dello stato in mano, interi ministeri e Ministri sostenuti dai loro soldi. Sai, la storia di Cosa Nostra degli anni '90 e 2000 non è ancora stata scritta, chissà quando sarà scritta, in quante aziende era presente, quanto ha influenzato i partiti politici.

Non essendo più sanguinaria come all'epoca ha meno attenzione mediatica.

Pare finita, ovviamente non lo è, semplicemente cambia passo e come spesso si sente dire, Riina è molto più odiato dalle organizzazioni mafiose che dallo Stato perché spargendo così tanto sangue accende molta luce. Falcone dice che l'antimafia la fai davvero se hai omicidi eccellenti, se non ne hai, nessuno la vede più. Non è un caso che la ‘Ndrangheta fa una scelta precisa, per esempio non avere politici di primo piano a libro paga ma segretari di ufficio, tecnici dell'apparato, tutta la burocrazia è infiltrata: chi gestisce uffici, archivi, molto più del Ministro. Casa Nostra invece voleva Lima, così come la camorra degli anni '80, volevano i propri uomini fisicamente lì per poterli chiamare quando volevano. Adesso sarebbe un danno enorme.

Falcone diceva che "in questo Paese per essere credibili bisogna essere ammazzati". Forse oggi non è più così, ma esiste sempre più la delegittimazione, no?

Sì, ma succedeva anche all'epoca: la maggior parte dei giudici che cito nel podcast viene delegittimata: arriva prima quella, poi la solitudine, poi l'omicidio. Ricordavi la frase di Falcone, ma il punto è che oggi non vieni più creduto, oggi la credibilità non c'è più, puoi parlare di tutto, basta che hai un po' di follower: la misura dell'autorevolezza ha cambiato grammatica. In passato potevi parlare di un argomento se avevi pubblicazioni, dialettica con lAccademia,  con la Società civile, esperienza, ecco, tutta una serie di parametri ti rendevano esperto o esperta di un tema, oggi non più. Se hai follower, quindi la quantità di impatto, puoi parlare di tutto, quella è l'unica legittimazione rimasta e vieni ascoltato. Puoi essere nessuno, parlare di guerra ed essere ascoltato: questo in passato era impensabile. Sulle mafie, all'epoca, le organizzazioni dovevano attaccare i credibili, non importava se quel politico o giornalista parlasse di loro, a loro importava quando una voce credibile parlava di loro: Pippo Fava mica scriveva sul Corriere o andava al Tg1? Aveva una rivista locale, I Siciliani, eppure essendo autorevole era rischiosissimo.

Uscirai con un libro dedicato a Falcone: oggi come si racconta alle nuove generazioni?

Io ho immaginato di poter fare un racconto epico, come una grande storia di resistenza e creatività intellettuale, di una persona che doveva inventare strumenti per capire come affrontare questo magma gigantesco che accerchiava il Paese. la sua è la storia di un uomo che non voleva diventare eroe e sacrificarsi, non voleva essere speciale, quindi il contrario dell'eroe epico che cerca l'immortalità, la fama e l'avventura. Non è Ulisse, non è Achille o Orlando, ma un uomo che cerca la vita, anche quella riservata, pacata, ma che si rende conto che quella vita è compromessa continuamente da un problema e il suo compito è affrontare quel problema. E vuole affrontarlo con gli strumenti dati che devono renderlo non eroe, ma responsabile, con l'incarico di gestire quel problema. Quando si rende conto che occuparsi di questa cosa significa raccogliere su di sé un impegno e una responsabilità sovrumani, lui non si tira indietro e lo fa perché – questa è la mia lettura , però – lo deve a chi è stato ammazzato. Quando agisce, agiscono, sanno che stanno agendo perché altri su quella strada sono morti e non esiste per loro, in nessun caso e a qualsiasi condizione, cedere. Intuisce che il coraggio è la sola cosa che può nutrire questa battaglia in cui lui è costretto a stare e di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

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