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“Rimi”: la nuova raccolta poetica di Gabriele Frasca

Una raccolta di poesie e prose poetiche che trasfigurano l’esperienza personale in un flusso di percezioni, sempre sulla soglia del senso di mortalità.
A cura di Luca Marangolo
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Dopo "Rame", "Lime", "Rive" e "Prime" ecco un nuovo lavoro poetico di Gabriele Frasca: "Rimi". I titoli rimati e assonanzati di queste raccolte hanno scandito il ritmo della produzione in versi di Frasca, una delle figure di scrittore più chiaramente rappresentative di un tentativo di sintesi che la letteratura a noi contemporanea ha cercato, negli ultimi vent’anni, di fare con la sua storia novecentesca, già intrisa di avanguardia e sperimentazione.

La cultura di Gabriele Frasca è radicata, intellettualmente e stilisticamente, nel flusso vitale dell’arte del secolo scorso: Frasca ha assimilato con vigore un rapporto con la scrittura che appare nascere con il modernismo di Joyce e, passando attraverso Samuel Beckett, porta le sue istanze vitalistiche all’interno della scrittura. Leggendo le poesie  dal fraseggio convulso e capricciosamente assonanzato non si può non constatare quanto al centro della ricerca poetica di Gabriele Frasca ci sia il bisogno di affermare l’esperienza estetica come primo valore poetico. Un’esperienza che pone in subordine la coscienza, prevale su di essa. E precisamente questa ci sembra la chiave che Frasca abbia voluto dare al suo nuovo volumetto. La raccolta, in verità, è divisa in tre parti: “Quevedo”, “Rimi”  e “Dopo l’incursione”.

“Quevedo” è, come il titolo suggerisce chiaramente, un omaggio alla sonettistica barocca: ventisette sonetti in cui  aleggia in modo quasi ossessivo il tema, barocchissimo, della morte, pronta a celarsi dietro la più scintiellante delle  esperienze estetiche. Sono sonetti composti senza punteggiatura in cui il ritmo degli endecasillabi crea una specie di labirinto sonoro sovrapponendosi alla sintassi, la quale però esalta il suono naturale dei versi. Ne deriva dunque un palese omaggio ad un gusto per l’astrazione seicentesca di poeti come Gòngora e lo stesso Quevedo, con una poesia fatta di immagini contemporaneamente elaborate e gelide, accecanti e rarefatte. In questo stesso gioco retorico si riflette del resto la ripetizione ossessessiva di termini  che ruotano attorno alla morte, i quali punteggiano le lunghe frasi che compongono “Quevedo”, frasi che portano alla luce, per frammenti, rapporti amorosi vagheggiati per la loro intensità eppure intarsiati con una riflessione celebrale sulla consapevolezza della loro caducità.

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Quevedo” sembra fare da prolusione al corpo centrale della raccolta, intitolata “Rimi”.  Lo annuncia anche una citazione di Deleuze-Gattuari: non c’è solo il ritmo astratto del verso ma anche lo scorrere della prosa. “Rimi” è un lungo poemetto in prosa, contemporaneamente narrativo e antinarrativo, scritto in quaranta capitoletti. La prosa è strutturata, come si diceva, in modo tale da fare entrare in subordine il lento e vago evolvere della situazione descritta rispetto all’inondazione di immagini e percezioni che il testo raccoglie. Anche qui la punteggiatura è usata liberamente per simulare un ritmo versificatorio: ci vengono presentate immagini, situazioni in cui emerge un’attore della vicenda nel mezzo di un contesto che sembra disegnarsi dal nulla: il mare, una casa, un parco. Una narrazione fatta per frammenti, di chi vuole chiaramente ribadire che la ricchezza dell’esperienza sovrasta la coscienza e la trascina prendendola con  la forza desiderio, un desiderio che  spinge a raccontare la vita quotidiana in uno stato fra la veglia e il sonno: mostrando ostinatamente, si direbbe, che questo desiderio sembra  eccederla sempre, rivelandola come vacua e fantasmale.

Ecco perché ci sembra che ben si accordino le prime due sezioni di  “Rimi”: la prima sembra una specie di memento mori per la seconda, che esprime più compiutamente, o comunque in  modo meno mediato e più incline all’abbandono lo stesso intreccio fra esperienza e creazione artistica.

Veniamo infine all’ultima sezione “dopo l’incursione”. Si tratta  di nuovo di versi, ma  stavolta tradotti da Dylan Thomas. Frasca è molto affermato anche per essere un importante traduttore in italiano di Samuel Beckett e qui propone un lavoro di traduzione di un autore caro e in linea con la riflessione compiuta in questa raccolta. Il titolo gioca sul nome di una delle poesie tradotte:  "Cerimony after a fire raid",  “fire raid”  ovvero  “incursione incendiaria”. Questo “dopo” posto in evidenza nel titolo di quest’ultima sezione sembra dunque giocare quasi in modo blandamente metalinguistico sul  senso della poesia e della sezione stessa, posta appunto alla fine della raccolta.

 La poesia tradotta traccia l’atroce squarcio di vita bellica, descrivendo in un crescendo il funerale della di un bambino morto dopo un bombardamento aereo. E’ però contemporaneamente una poesia che riflette sul ruolo ambiguo dell’identità rispetto alla morte.  La traduzione si apre con il verso:

“me stessi

quelli che in pianto

compiangono

fra le strade immolate al rogo dell’infaticabile morte

un bambino di poche ore”

la scelta di questa poesia, assieme alle altre della stessa raccolta nella traduzione di Frasca, completa, si diceva,  la riflessione sul senso di morte, ribadendo anche lo smarrimento persistente dell’io di fronte alla radicalità dell’esperienza.

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