Rimbaud e le sue lettere dal mondo: pubblicato l’inedito carteggio
“Non sono venuto qui per essere felice” è il titolo della recente pubblicazione, a cura di Vito Sorbello per i tipi di Aragno, delle lettere di Arthur Rimbaud (1854 – 1891). Due volumi che ci svelano aspetti poco noti della vita del grande poeta di Charleville, dalla fuga in Africa all’ultima corsa verso Aden su una barella e con la gamba in cancrena.
La vita di Arthur Rimbaud, il profeta contadino, si svolse in giro per il mondo in costante tensione tra fuga verso Parigi e poi da Parigi e ritorno alla sua odiata/amata Charleville, un paesino nella regione della Champagne-Ardenne nel nord della Francia. Mentre nella capitale francese nasceva la sua leggenda e si fantasticava sulla sua fuga in Africa, (si diceva infatti che fosse tornato allo stato di natura diventando il re di un popolo selvaggio) egli in realtà si inventò imprenditore viaggiando con lo zaino colmo di manuali di idraulica a falegnameria. Ad Harar contrasse la sifilide, primo inciampo di una serie sfortunata di eventi, e si comprò una schiava abissina che, a quanto risluta, trattò con rispetto e mandò a scuola dai missionari.
Certo Rimbaud aveva già scandalizzato mezza Francia e non solo per i suoi comportamenti bizzarri, per l’abbigliamento molto trasandato e per i pidocchi che aveva nei capelli e che lanciava addosso a chiunque gli stesse antipatico. Egli fu anche protagonista di uno dei gossip più discussi dell’epoca, la fuga d’amore col poeta Paul Verlaine che per lui lasciò il tetto coniugale lasciandosi trascinare a Bruxelles dove l’alcol, la droga e gli ambienti malfamati li ridussero al rango di reietti. Dopo alcuni mesi finirono addirittura quasi con l’ammazzarsi l’un l’altro a causa di un violento litigio (Verlaine ferì il giovane Arthur al polso con una rivoltella). Dopo la rottura Rimbaud si arruolò, sempre in Belgio, nelle truppe coloniali in partenza per Giava, ma poi finì col disertare.
L'ultima avventura del “poeta maledetto” fu su una barella con la gamba in cancrena, trasportato dagli indigeni verso Aden. Lì subì l’amputazione dell’arto e mai si adatto alla protesi che i medici gli raccomandavano. Fece ritorno, ancora una volta, alla sua Charleville, ormai invalido e immobile lontano dagli anni ruggenti che lo avevano visto partecipare ai tumulti della Comune di Parigi e dalla fughe per l’Europa. Passò gli ultimi anni della sua vita tra dolore e disperazione esattamente come lui aveva inteso la missione del poeta veggente, in opposizione netta al desolante ottimismo del secolo in cui visse.