Restauro gradinate nel teatro antico di Catania, è polemica: “Invasivo, chi lo ha autorizzato?”

Operai al lavoro nell'antico teatro di Catania. Chi oggi visita l’area archeologica nel centro storico della città etnea si accorge della presenza di betoniera, assi di legno e carriole. Il bianco dei nuovi gradini del settore centrale rivela l’intervento di restauro che si sta operando per colmare l’assenza delle gradinate andate perdute. Il teatro romano si rifà il look, ma è polemica sulle scelte tecniche e le modalità di esecuzione. A partire dalle autorizzazioni.
Il teatro romano di Catania, sul fianco meridionale della collina di Montevergine, accanto all’Odeon e arricchito dall’Antiquarium, con i suoi 80 metri di diametro e una capienza di circa settemila spettatori, è tra i più grandi in Sicilia, insieme a quello di Siracusa e Taormina. Stretto in un isolato cittadino e ancora inserito nel contesto originario, a poche centinaia di metri dal duomo e dalla Piscarìa, storico mercato del pesce, fa parte del Parco archeologico di Catania e della valle dell’Aci, che comprende siti ubicati anche nel territorio di Enna. La struttura risale soprattutto all’età romana, dalla prima fase costruttiva del I secolo d.C agli ampliamenti del II secolo d.C.
La denuncia delle associazioni
"Sui lavori in corso al teatro antico di Catania – esordisce Simona Modeo, archeologa e vice presidente regionale di SiciliAntica, associazione di volontariato che da oltre vent’anni opera nel settore dei beni culturali su tutta l’isola – viene da chiedersi ‘ex abrupto’ se per l’intervento di restauro del monumento si stiano utilizzando materiali compatibili con quelli dell’antica struttura. Al riguardo ci piacerebbe conoscere il parere della Soprintendenza per i beni culturali e ambientali di Catania cui spetta, per legge, la tutela del patrimonio culturale della città e del suo territorio".
Il riferimento è agli articoli 146 e 28 del codice dei beni culturali e del paesaggio che regolano l’autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza, la quale può fermare i lavori condotti in assenza o in difformità dall’approvazione. Del resto, nella giungla di leggi, decreti e circolari, la tutela compete sempre alla Soprintendenza, mentre la valorizzazione al Parco, nonostante lo statuto speciale attribuisca alla Regione Sicilia una completa autonomia legislativa in tema di antichità e belle arti. Nel campo dei beni culturali lo stretto di Messina diventa un confine di Stato, ma la Sicilia adotta lo stesso codice perché l’ha recepito con legge propria.
La critica di SiciliAntica si estende anche all’ottica manageriale nella gestione pubblica del patrimonio archeologico, che mortifica le competenze degli archeologi e privilegia gli incarichi fiduciari più che potenziare l’organico qualificato. "Purtroppo anche il Parco di Catania, – aggiunge Modeo – come tutti gli altri Parchi siciliani, non è diretto da un archeologo. Ciò avviene perché a regolamentare le nomine, che non tengono in alcun conto né i saperi specialistici né la comunità scientifica, è il decreto 9/2022, con cui il Governo regionale ha soppresso, ‘contra legem’, le sezioni tecnico-scientifiche nelle soprintendenze, nelle gallerie d’arte, nei musei e nei parchi archeologici della Sicilia. Ecco perché sempre più spesso lo straordinario patrimonio archeologico dell’isola non è tutelato e valorizzato come merita".
Il dibattito è aperto

A fare da eco a SiciliAntica è Italia Nostra, associazione che da settant’anni contribuisce a diffondere la cultura della conservazione del nostro patrimonio culturale, artistico e naturale. "L’integrazione di parte dei gradoni mancanti della cavea, all’interno del teatro risalente all’età romana, nel cuore di Catania, – rimarca Leandro Janni, architetto e presidente regionale di Italia Nostra Sicilia – è in corso di realizzazione con pietra calcarea bianca e cemento. Mi pare un intervento improprio. Ci chiediamo se sia stato autorizzato dal soprintendente competente e dal comitato tecnico scientifico del Parco (il presidente del comitato tecnico scientifico del Parco è il soprintendente, ndr)".
Toni accesi anche sul restauro come operazione finalizzata a guadagnare posti in un teatro dove si svolgono ancora oggi spettacoli. "La tutela del bene storico-monumentale, del bene archeologico è prioritaria. – ci tiene a sottolineare Janni – E valorizzare non significa alterare o danneggiare ciò che resta di un monumento originario, magari a fini speculativi. In Sicilia, in questo momento storico, valorizzare un monumento, un bene culturale significa soprattutto fare cassa. Questa è la linea politica e culturale. E questo di Catania appare più che altro come un intervento edilizio in un sito, in un contesto straordinario. È chiaro che un direttore di Parco archeologico non può agire autonomamente, se deve fare un intervento di restauro o peggio di modifica nel sito. È sempre necessaria l’autorizzazione del soprintendente. Autorizzazione a seguito di uno studio, di un progetto, e ovviamente con la consulenza di un archeologo".
L’intervento, secondo Italia Nostra, finisce per essere invasivo, poiché non rispetta la normativa e i principi fondamentali del restauro, cioè in primo luogo della reversibilità. Reversibilità rispettata, al contrario, dalle precedenti sedute in legno, semplicemente poggiate sui ruderi, che, pur ormai marce, "si sarebbero potute sostituire con poca spesa invece di passare alla moderna muratura".
Ampliare l’accessibilità al teatro significa tutela attiva?
Posizione più morbida quella di Archeoclub d’Italia. "Gli interventi di riuso o ricomposizione, nei siti archeologici, come il teatro romano di Catania, – commenta Francesco Finocchiaro, architetto del dipartimento nazionale architettura e paesaggi dell’Archeoclub d’Italia – sono necessari per rigenerarli e nello stesso tempo per conservarli. Bisogna comunque determinare, attraverso il progetto, meglio se condiviso, il giusto rapporto tra antichità e modernità. È una scelta culturale, disciplinare e specialistica. Ricostruire le possibili lacune, integrando parti anche strutturali con elementi nuovi e riconoscibili, è compatibile con le teorie del restauro e lo scarto tra antichità e modernità è uno strumento narrativo, tecnologico e didattico". In tale prospettiva, l’opera di restauro attualizzerebbe le potenzialità del monumento che esso nasconde. "Giovannoni e il restauro dell’Arco di Tito insegnano come Giorgio Grassi a Sagunto. – cita Finocchiaro – Senza dimenticare quanto già fatto in passato da Giuseppe Pagnano nello stesso teatro e da Giancarlo De Carlo a Catania".
Per Finocchiaro il recupero dell’originale sarebbe un equivoco troppo sbandierato, una sorta di imbalsamazione delle antiche testimonianze. "Rimane comunque conflittuale – analizza Finocchiaro – la dialettica tra conservazione e innovazione, tra restauro filologico, analogico e critico. Nello stesso tempo è contraddittoria la percezione che i cittadini hanno di ogni possibile innesto della modernità nella Storia. Sono processi che vanno governati anche con la condivisione pubblica dei lavori, spiegandone le fasi e le scelte. Restiamo in attesa di vedere il progetto e il lavoro finale per fare valutazioni più attente. Non ho ancora visto da vicino, ma immagino che sia una fase intermedia non ancora conclusa".
La risposta del Parco archeologico e della Soprintendenza
"Si sta procedendo alla sostituzione delle gradinate in legno su palafitte di ferro, non più sicure, con gradinate in pietra della stessa tipologia di quelle già realizzate", spiega il direttore del Parco archeologico di Catania e della valle dell’Aci, Giuseppe D’Urso, ribattendo sui dubbi riguardanti l’intervento invasivo. "Delle gradinate esistenti – dice – sono poche quelle originali in blocchi unici, anche le altre sono realizzate con materiale lapideo assemblato con la stessa tipologia di quelle che stiamo realizzando ora. Dovranno essere fugate e con il tempo tenderanno ad uniformarsi dal punto di vista del colore. A parte le prime file, dove ci sono ancora i blocchi originali, il resto è realizzato con lo stesso sistema. Le vecchie gradinate, ogni anno soggette a manutenzione per la parte lignea, si erano ammalorate, piuttosto che andare a ricrearle di legno, che non c’entrava completamente con il contesto, abbiamo optato per aumentare la parte già ricostruita".
E sui permessi alla Soprintendenza? "Dal punto di vista strutturale – risponde D’Urso – abbiamo chiesto ad un ingegnere per verificare la fattibilità tecnica dell’operazione. Il rup, responsabile unico del procedimento, che segue il lavoro è un archeologo, siamo nella zona a del Parco, abbiamo fatto una comunicazione nell’ambito del comitato tecnico-scientifico". La Soprintendenza di Catania contattata da Fanpage.it sulla questione rimanda tutto al dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana "perché non rilasciamo dichiarazioni in quanto organo tecnico periferico, colloquiamo con il nostro dipartimento, non con la stampa", precisa la soprintendente per i beni culturali e ambientali di Catania, Ida Buttitta.
La romanzesca vicenda del teatro: la “liberazione” del monumento
L’odierna ‘querelle’ è solo uno dei capitoli della travagliata storia del teatro catanese, al centro di una delle maggiori imprese archeologiche del secondo dopoguerra, rimasta incompiuta: la liberazione del monumento con l’abbattimento di un intero quartiere della città. A voler ripercorrere brevemente tutte le complicate fasi, il teatro era ancora in gran parte visibile e usato come cava di marmi in età normanna, ma sparì sotto le case del quartiere medievale denominato Grotte (forse per la sopravvivenza degli ambulacri sotterranei) che seguiva la stessa forma dell’edificio. Le strade del quartiere Grotte, infatti, erano semicircolari ed esisteva una piazzetta con un pozzo proprio all’altezza dell’orchestra.
Il primo a scavare il teatro fu il principe di Biscari nel Settecento, successivamente nel corso dell’Ottocento i lavori proseguirono molto a rilento e senza una programmazione precisa. Nel 1938 si iniziò a parlare di liberazione integrale del teatro e il mito della romanità fascista lo promosse a simbolo di propaganda, dal momento che l’antico spazio per gli spettacoli catanese venne individuato come l’unico interamente romano della Sicilia. Si vagheggiò la colossale impresa, rifacendosi a quanto era successo per i Fori imperiali a Roma, quando nel 1924-1932 Mussolini per inaugurare via dell’Impero rase al suolo l’intero quartiere Alessandrino. Sventramenti per far rivivere la Roma imperiale.

Dall’abbattimento del quartiere Grotte ai ritrovamenti degli anni Sessanta
Tuttavia, il progetto di liberazione si arrestò con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Ripartì subito dopo, nel 1947. Sotto la piazzetta medievale vennero rinvenute nel 1951 decine di colonne di marmo, cadute dal loggiato sopra la cavea, e uscì fuori la pavimentazione marmorea dell’orchestra. L’entusiasmo dei ritrovamenti portò dal 1959 al 1965, con i fondi della Cassa del Mezzogiorno, all’abbattimento delle case del quartiere Grotte, ma andò pian piano scemando perché ci si accorse che della ‘media’ e ‘summa’ cavea non era rimasto nulla. Ovvio: per costruire le case era stato necessario tagliare le antiche gradinate e buttare giù gli ambulacri. Italo Gismondi, noto architetto dell’archeologia del Ventennio, già soprintendente a Roma e direttore degli scavi di Ostia, ma ormai ottantenne, chiamato a dirigere l’opera, affiancato dal giovane archeologo Patrizio Pensabene, sospese le demolizioni e cominciò a ricostruire ciò che mancava.
La moderna ricostruzione e l’apertura al pubblico
In pratica, Gismondi per attenuare la disparità visiva tra l’antico e la moderna ricostruzione, utilizzò i moderni mattoni artificiosamente scheggiati insieme ai materiali originali erratici rinvenuti negli abbattimenti e alle basole ottocentesche che in quegli anni il Comune di Catania toglieva dai lastrici stradali per sostituirli con l’asfalto. Tutto unito insieme con una malta cementizia simile a quella romana e segnato nella muratura attraverso placchette in terracotta con la data. Gismondi morirà senza aver concluso il suo programma. Nel 1971 i lavori cessarono del tutto e non vennero portati a compimento.
Il teatro, allo stato di cantiere abbandonato, restò chiuso ai visitatori. Riaprì al pubblico degli spettacoli (solo musical e teatro contemporaneo, nessuna concorrenza con Siracusa) nel 1979 con una cavea in sedute di acciaio e legno per mitigare le asperità del finto ‘rudus’ romano di Gismondi. Dopo meno di dieci anni rinserrò i battenti. Tra alti e bassi, bisognerà aspettare il 2011 per la sua piena fruibilità. Una vicenda storica, quella teatro antico di Catania (comunque oggetto di nuovi scavi, continui studi e sistemazione di dati), che percorre i secoli mescolando usi, interessi e protagonisti. Dove il confine tra ieri e oggi è ancora lontano dall’essere stabilito.