Rem Koolhaas è il nuovo Curatore della 14 Biennale di Architettura di Venezia: chi è e cosa c’è da aspettarsi
«L'Architettura è un miscuglio indistinto di conoscenza antica e pratica del contemporaneo, un modo goffo di guardare al mondo ed un mezzo inadeguato per operare su di esso» così definisce l’Architettura Rem Koolhaas, senza alcun ombra di dubbio, una delle personalità più influenti e complesse della cultura architettonica mondiale a partire dalla fine degli anni Ottanta, sia per i progetti ideati e realizzati in tutto il mondo, che per una serie di opere teoriche che hanno cambiato decisamente il nostro modo di leggere e guardare l’architettura nel paesaggio metropolitano. Sono quarant’anni che l’architetto olandese, classe 1944, detta legge nell’universo dell’architettura internazionale, sull’accademia e sui media, sugli appalti e sulle mode. Dal Messico alla Cina al Medioriente dietro ogni architetto emergente, dietro ogni festival e ogni nuova rivista c’è lui. Gli studenti più svegli da Harvard a Teheran imitano il suo modo di scrivere e di presentare analisi e progetti: fotomontaggi volutamente kitsch o pastiche allegorici per rappresentare le architetture, affiancati a grafici e statistiche, e utilizzo della grafica e delle immagini dei quotidiani e settimanali in un meccanismo di ironica informativa sugli evidenti luoghi comuni della modernità.
Archistar per eccellenza (termine che peraltro lui ha sempre rifiutato «è un'invenzione di un gruppo di giornalisti pigri»). Ma non è una semplice archistar, di quelle anche più note al pubblico generalista come Zaha Hadid, che si accaparrano commesse in tutto il mondo e declinano in infinite varianti un’unica idea piazzandola in ogni contesto; al contrario, le sue architetture non hanno una matrice estetica che le accomuni, esse sono sempre delle singolarità che tentano di fornire una risposta universale ad un problema locale e puntuale. Koolhaas ha attraversato tutta la Postmodernità da attore protagonista e colto intellettuale. Nei suoi progetti però non compaiono citazioni formaliste e storiciste: ogni progetto è l'occasione per proporre nuove soluzioni distributive o tipologiche, non per cercare un linguaggio-griffe. Una riflessione disincantata sulla condizione di postmodernità fa emergere appunto la statura di Koolhaas come critico della realtà (statura confermata da fortunate pubblicazioni e taglienti pamphlet) con le sue analisi dei rapporti tra politica e architettura, con le stimolanti considerazioni sulla città contemporanea e sul ruolo dell’architetto oggi.
L'era post-moderna è un'epoca in cui si devono fare continuamente delle scelte. È un'epoca in cui non può essere adottata alcuna ortodossia senza imbarazzo e ironia, perché tutte le tradizioni sembrano avere una qualche validità. (Charles Jencks)
Per molti è il primo degli architetti contemporanei, per altri è l’ultimo dei moderni. Rem Koolhaas ha firmato le architetture private e pubbliche più celebri degli ultimi decenni: da Villa Dall’Ava a Saint Cloud nel 1991, alla recentissima CCTV, sede della televisione di Stato cinese a Pechino. E progetti che, anche se non realizzati (il Parco de la Villette a Parigi nel 1982, la Biblioteca di Francia nel 1989, il Centro Congressi ad Agadir in Marocco nel 1990), sono considerati icone dell’architettura contemporanea. Ma gli scritti di Koolhaas hanno un valore di gran lunga superiore a quello delle sue architetture che, al contrario, rendono evidenti gli scollamenti tra teoria e prassi, tra critica al sistema capitalista contemporaneo e volontà di scendere a patti con esso. In realtà è lo stesso Koolhaas a non aver mai nascosto i suoi ammiccamenti al sistema mercato, le sue ambigue relazioni con le forze della globalizzazione, col contestato e allo stesso tempo contemplato capitalismo dello Y€$.
Negli ultimi anni si è dedicato essenzialmente al ruolo di divulgatore, di comunicatore della contemporaneità: le sue analisi multidisciplinari, composte di elementi sociologici, geopolitici, economici, partono quasi sempre dalla stigmatizzazione di quelli che a suo dire sono luoghi comuni, rigidità ideologiche, miti benpensanti da ribaltare con qualsiasi mezzo. I suoi due libri più noti, “Deliriuos New York” del 1978 e “S,M,L,XL” del 1994, hanno spostato in maniera provocatoria e virale gli assi del dibattito internazionale sull’architettura e il paesaggio urbano globalizzato. Qualcuno parla addirittura di “Remology”, riferendosi all’importanza del suo pensiero, espresso senza mezzi termini da un lavoro infaticabile che mette insieme teoria e pratica, grazie anche al supporto del suo studio, struttura felicemente palindroma, OMA-AMO (OMA per la progettazione e AMO che si occupa di concept, libri, articoli, riviste e ricerca). Proprio per questa sua duplice passione (Koolhaas scrive e progetta architettura) è stato da alcuni definito il “Le Corbusier del postmoderno”. Ad accomunarli è la militanza nell’architettura estrema, la fede in un’ideologia, la seduzione della novità: per l’architetto svizzero erano i silos, le navi, gli aerei, l’industria che avanzava, l’estetica della serie; per l’architetto olandese è il caleidoscopico mondo allargato dei media, appunto il suo AMO opera da sempre nelle aree di confine tra media, politica, energie rinnovabili e moda, di cui Koolhaas è un grande conoscitore.
È proprio questa ambivalenza che gli ha consentito di egemonizzare più di chiunque altro le teorie e il pensiero architettonico degli ultimi decenni. Ed è proprio a questo grande provocatore, per il quale « L' arte? Inutile, perché è una risposta inconsistente a una realtà imbarazzante. La storia? Con i suoi simulacri architettonici deteriora e appiattisce il carattere della società. Quanto al progresso, inutile illudersi, non esiste più: la cultura barcolla come un granchio fatto di Lsd mentre l' architettura incarna vecchio e nuovo simultaneamente» che toccherà il compito di lanciare uno sguardo nuovo sul futuro dell’architettura e di tracciarne possibili vie alternative di sviluppo. Rem Koolhaas recentemente è stato infatti nominato Curatore della 14 Mostra Internazionale di Architettura. Ci si chiede appunto come sia stato possibile che Paolo Baratta, Presidente della Biennale di Venezia, mentre dichiarava «negli ultimi anni siamo partiti dalla constatazione della separatezza e del divario tra la “spettacolarizzazione” dell’architettura da un lato, e della scarsa capacità di esprimere domanda ed esigenze da parte della società civile dall’altro. Gli architetti sono stati chiamati prevalentemente a realizzare opere stupefacenti e “l’ordinario” è alla deriva, verso la banalità quando non lo squallore: una modernità mal vissuta», abbia proprio scelto Rem Koolhaas, lo stesso che ha fatto di «Fanculo il contesto!» il suo messaggio fondamentale.
Koolhaas è oramai un fenomeno mediatico. Baciato dalla notorietà, è accettato anche da quell'establishment che, tendenzialmente, lo disprezzerebbe ma che, ben conoscendo le regole del potere, non si sognerebbe mai di essere arrogante con chi ha successo. (Luigi Prestinenza Puglisi)
Ma l’architetto olandese, il più visionario del mondo contemporaneo, saprà stupirci, come già ha fatto scegliendo, con largo anticipo, il tema della prossima Biennale di Architettura: “Fundamentals”. È curioso infatti che proprio uno dei teorici più aggressivi della Junk architecture (architettura spazzatura), e uno dei progettisti che più ha contribuito con le sue opere al carattere globalizzante dell’architettura d’oggi, sollevi tale tema.
«Sarà una Biennale sull'architettura, non sugli architetti. Dopo diverse Biennali dedicate alla celebrazione del contemporaneo, Fundamentals si concentrerà sulla storia – sugli inevitabili elementi di tutta l'architettura utilizzati da ogni architetto, in ogni tempo e in ogni luogo (la porta, il pavimento, il soffitto, etc.) e sull'evoluzione delle architetture nazionali negli ultimi 100 anni. In tre manifestazioni complementari (…) questa retrospettiva darà luogo a una rinnovata comprensione della ricchezza del repertorio di fondamenti dell’architettura, che attualmente sembra essere esaurito. Nel 1914 aveva senso parlare di architettura “cinese”, architettura “svizzera”, architettura “indiana”. Cent'anni dopo, sotto la pressione di guerre, regimi politici diversi, molteplici condizioni di sviluppo, movimenti architettonici nazionali e internazionali, talenti individuali, amicizie, traiettorie personali casuali e sviluppi tecnologici, le architetture che un tempo erano specifiche e locali sono diventate intercambiabili e globali. Sembra che l'identità nazionale sia stata sacrificata sull'altare della modernità».