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Quei migranti al contrario che nessuno blocca: gli italiani in fuga

I numeri sulla migrazione dei giovani sono impressionanti. Ma nessuno merita di essere ridotto a numero. E la poesia ha il dovere di colpire forte dove fa più male. Ha bisogno di raccontare cosa succede quando l’estate finirà e ci si troverà nuovamente davanti al ricatto tra lavoro e felicità, tra futuro e amore.
A cura di Andrea Melis
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A un certo punto l'alibi dei migranti che arrivano dovrà pure finire. Come ogni anno succederà a fine estate. Quando in centinaia di migliaia, forse in milioni, dovranno ringhiottire la malinconia mentre salutano genitori, fratelli, sorelle, amici e amori resi impossibili dalla fame.

Diretti a Parigi, a Londra, a Berlino, a New York, ovunque purché non qui. Io li conosco molto bene. Sono buchi nella mia anima. Sono camerieri che fuori dall'Italia vengono pagati in modo degno e persino assicurati. Sono barman. Sono insegnanti, sono informatici, artisti, professionisti di ogni scienza e sapere. A volte sono pulcini sparuti che lasciano casa per la prima volta.

Vivono in topaie di pochi metri quadri, con bagni condivisi sul corridoio, e stanno al mondo dignitosamente grazie alla rete solidale di chi li ha preceduti e dall'amore amarognolo della famiglia che da qui prova a sostenerli. In genere sono comunità a cerchi concentrici: sardi con sardi, pugliesi con pugliesi, napoletani con napoletani, veneti, toscani, lombardi. Non più solo "terroni", per intenderci. Ma poi l'unica vera fratellanza che questo Paese abbia mai realizzato si fa più grande nel dolore, e così all'estero si realizza quell'Italia mai fatta per davvero: italiani con italiani. Il sardo riconosce la mano tesa del milanese, e non c'è più tanto da giocare ai terroni e ai polentoni. Ci si scherza su, certo, magari davanti alle partite di calcio o al mitologico pacco di cibo che arriva da casa: a chi le mozzarelle, a chi il pane carasau, a chi il tartufo.

Ma quando si è così pienamente coscienti di essere scivolati tanto profondamente nel sud dell'Europa, a "Sud di nessun nord", direbbe con amarezza e cinismo il grande Bukowski, il campanilismo non interessa. Come non interessa il razzismo. L'omofobia. E tutte le questioni preconcette. Tutti questi uomini, donne, ragazzi sanno il mondo a loro spese, sanno il razzismo e l'omofobia a loro spese. Non hanno bisogno di abbaiare alla luna e guardano stupiti i nostri politici, vecchi anche quando sono giovani, conservatori anche quando sono progressisti, incapaci di fare impresa quando sono di destra, incapaci di proteggere i lavoratori quando sono di sinistra,  incapaci in tutti i casi e da sempre di creare ricchezza.

Guardano stupiti il loro Paese che si allontana, mentre se ne vanno. E chiedono cosa si sia fatto per tutti loro, mentre un altro anno se ne va tra politici che ragliano e profittatori di Stato che ingrassano.

I numeri sulla migrazione dei giovani sono impressionanti. Ma nessuno merita di essere ridotto a numero. E la poesia ha il dovere di colpire forte dove fa più male. Ha bisogno di raccontare cosa succede quando l'estate finisce, ora che l'estate sta iniziando. Parlo da isolano della terra di Sardegna, ma parlo di tutti i sud del mondo, di tutte le persone costrette a farsi isola per sopravvivere. In fuga da una nazione morente che abbandona i suoi figli davanti al ricatto tra lavoro e felicità, tra futuro e amore.

L’ESTATE STA FINENDO.
———————————

A fine estate se ne andranno tutti a quanto pare.
Una coppia di amici si trasferirà a vivere a Torino
E un'altra in Libano
e un'altra amica andrà a Londra
dopo quella partita a Berlino
e qualcun altro tornerà a Parigi
e tanti porteranno con sé anche i loro figli neonati
e i soliti riprenderanno la via della Spagna
e qualcuno nuovo si aggiungerà
perché ha deciso che molla tutto e va via
in Portogallo,
a New York
in Argentina,
in Australia.
Ma a volte basta meno
per dimostrare quanto questa terra antica
avrebbe bisogno di una bella eruzione
che stappi il tappo di poltrone,
prebende, camarille, mafie, mattone,
massonerie, medicina, giornalisti, arroccati, accozzati, appesi,
ereditieri, possidenti, cognomi ingombranti come lacci emostatici,
ordini professionali a ingresso ereditario,
bandi pubblici a nodo scorsoio,
si a volte basta tanto meno
anche solo l'est Europa, o almeno Milano,
purché lontano dal fetore d'Italia.

A forma di culo doveva farci Dio
non di stivale.
Perché se vuoi vivere qui è quello che ti tocca fare:
scendere dall'aereo o dal treno e inginocchiarti subito
a baciare la chiappa giusta.
Terra di perle ai porci, di orizzonti irraggiungibili,
di ovvietà negate, di stupidità granitiche, di piaghe intoccabili.
Nazione di lamentele senza rivoluzioni.

Da settembre,
resteremo io e pochi altri sognatori
a cantare sottovoce
per un altro lungo inverno da cicale
sotto al tavolo imbandito
in attesa delle briciole.
E la rinnovata solitudine di padri, madri, fratelli e compagni di vita,
sarà segno inequivocabile che l'estate è finita
anche se ancora non piove
anche se il grande mare nostro è ancora caldo
del calore dei corpi di chi è partito lontano.

(Andrea Melis Parolaio)

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Andrea Melis (Cagliari, 1979), grafico, videomaker e scrittore, ha pubblicato articoli di cultura, interviste, inchieste e racconti per riviste e quotidiani nazionali e stranieri. Tra i membri fondatori del Collettivo Sabot, ha firmato romanzi insieme ad autori come Massimo Carlotto e Francesco Abate, tra cui Perdas de Fogu (E/O, 2008). La sua prima opera in poesia, #Bisogni, una selezione di versi autoprodotta in mille copie grazie a una campagna di crowdfunding, è andata esaurita in poco più di un mese. Il suo ultimo libro è edito da Feltrinelli, Piccole tracce di vita. Poesie urgenti (2018). Collabora come autore di testi con artisti, illustratori, fotografi, musicisti e compagnie teatrali di tutta Italia. Scrive editoriali poetici per FanPage.it
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