Comincio a scrivere dell’importanza della reunion degli Oasis, a trent’anni dal primo album e a quindici esatti dalla brutale separazione per l’ennesima lite tra Liam e Noel, mentre una mail del sito ufficiale mi avverte che sì, ce l’ho fatta a entrare nella lista di quelli che potranno essere sorteggiati alla prevendita di venerdì 30: “You’re confirmed”. Al momento dell’iscrizione, il sito mi pone tre domande, precisando in piccolo che le risposte non mi garantiranno alcuna priorità. La prima è “Quanti concerti degli Oasis hai visto?”. La risposta: più di dieci. La seconda: “Chi era il primo batterista?”. Facilissimo: Tony McCarroll. Terza domanda: “A quale delle date preferisci partecipare?”. Risposta: non ha importanza. Che sia Manchester, Londra, Dublino, Edimburgo o Cardiff, io voglio esserci.
Ecco. È difficile per me, lo confesso, fare il giornalista quando si tratta degli Oasis. Per anni, la notizia di una possibile reunion ha contraddistinto le mie giornate al punto da restare scettico fino alla fine. Anche in questo caso. Anche davanti alla data del 27 agosto apparsa sui profili congiunti dei fratelli Gallagher. Per scaramanzia. È difficile per me, per quanto comprendo alcuni colleghi, prestare attenzione ai motivi che hanno portato a siglare questa pace, alle cifre e ai milioni – quanti? 50? 60? 250? Who cares? – perché per me quello che conta è tornare a sentirmi parte di qualcosa di unico e di grande. Qualcosa di epico.
Ovviamente, la nostalgia gioca il suo ruolo. È la grande illusione. La volontà di rivivere ogni desiderio di ieri, di riscattare il disincanto e il cinismo dell’età adulta. Chi è fan di una band, sa bene di cosa si tratta. Di tornare a sentire la magia. Nella bellissima giornata di ieri, ho letto post di persone che si dicevano “felici per i fan” perché conoscono la sensazione. Ieri, infatti, ho camminato un metro e mezzo da terra. Ho rivisto quel ragazzino con la Union Jack come mantello in coda tra decine di spassose copie di Liam Gallagher. Io, però, ho sempre desiderato essere Noel. Il mercato imboccava a tutti la bellezza e il carisma del frontman. Chi è chi scrive quello che lui canta, mi chiedevo io.
Gli Oasis sono stati una porta d’accesso a una sottocultura nella quale, da napoletano di Secondigliano, mi sono inevitabilmente rivisto: le zone industriali, le lower e working class, la vita turbolenta, pochi spicci in tasca, il desiderio di rivincita sociale. Scoprire che c’erano persone come me anche a Manchester che ce l’avevano fatta, a dispetto di tutto e di tutti, mi ha sempre fatto pensare che sarebbe arrivato il giorno in cui ce l’avrei fatta pure io. Mentre nel quartiere risuonavano le voci dell’amore, quelle di neomelodici e cantanti pop che disprezzavamo senza pietà, noi cantavamo a squarciagola “where were you while we we’re getting high” – da Champagne Supernova – e “we’re gonna Live Forever”. Ci sentivamo invincibili. E fieri. Come le chitarre distorte di Swamp Song.
Liam e Noel Gallagher, esemplari anche nelle dichiarazioni fuori dal palco. Sempre sopra le righe, polemici, guasconi, rissosi con l’ambiente ma solo a parole, squisitamente disimpegnati. La retorica e l'ideologia restano fuori quando si tratta di ascoltare gli Oasis. La musica. Conta quella. Il resto, no. Ecco, l’importanza della reunion degli Oasis. Sta parlando un fan, però. Forse agli occhi di qualcuno vale meno, ma per me, vale tutto: "I can't tell you the way I feel, Because the way I feel is, oh!, so new to me".