
Ogni anno a Sanremo è la stessa storia: chi porta una canzone con un argomento sensibile, pesante e importante viene ricoperto in ugual misura di elogi e critiche per l’argomento in questione, o addirittura proprio per la pretesa di appiccicare un tema di rilevanza sociale a una competizione musicale. Quest’anno la salva di acclamazioni ed esecrazioni è toccata a Simone Cristicchi, che con Quando sarai piccola parla della convivenza con una persona che soffre di morbo di Alzheimer. Ma che, prima di tutto, è anche soltanto una canzone che fa il suo mestiere.
Cominciamo dicendo che, se Sanremo ha fatto spesso e volentieri spettacolo dal dolore, non dobbiamo credere che le canzoni compassionevoli siano un’esclusiva italiana: brani che descrivono una malattia, anche nei suoi particolari più sconvolgenti, compaiono in ogni tradizione pop come quelli che vogliono gasarti per una serata fuori, quelli che vogliono intenerirti con buffi animaletti, e così via. Magari ti ricorderai Streets of Philadelphia di Bruce Springsteen, che si apre con la descrizione delle lesioni cutanee di un malato di AIDS.
Discutere della ragione per cui un cantautore sceglie di scrivere di malattia, poi, scivola facilmente in una questione morale. Non dico che non esistano buone scuse per applicare il proprio giudizio etico all’ascolto (per quanto l’Italia non abbia ancora deciso se questo discrimine si applichi a Tony Effe), ma proviamo a usare anche qualche criterio estetico per capire come mai certe canzoni sul dolore hanno effetto sul pubblico e altre no. Cioè, proviamo a rispondere alla domanda: vale la pena emozionarsi per questa canzone? O è solo una tragica mancanza di gusto? E perché?
Quando sarai piccola non fa mistero di essere lacrimevole. Te lo dice da subito con l’arrangiamento scheletrico per pianoforte. Il primo accordo occupa un’intera battuta e poco più, da solo, immerso in un riverbero da catacomba. Se ci pensi, è come un lungo respiro, il fiato da prendere prima che la scansione del giro acquisti velocità (non accelerando, ma tenendo un passo deciso). Piano piano sentiamo le note cascare ogni due quarti, con l’apparenza della casualità di uno sconsolato cantautore seduto al pianoforte, e in realtà strategicamente piazzate per guidarci lungo la progressione di accordi che dominerà la canzone. Insomma, la prima tecnica messa in pratica (utile anche per l’orecchio del cantante di acclimatarsi alla tonalità della canzone) è quella di far partire la messinscena del brano con un singhiozzo. E subito porre le basi per un crescendo, e dare il tempo a un ritmo lento ma serrato: perché il pop funziona così, come una marcia.
Un altro dispositivo pensato per scatenare una reazione emotiva e per “aprire” – come si dice – la canzone è la modulazione di tonalità verso l’alto. In pratica, la canzone sceglie un’altra nota di base, un po’ più acuta della precedente, per rischiarare la musica e far risaltare (se ci sono) le qualità del vocalist. Non cambia la struttura generale della composizione, ma tutto diventa un pochino più luminoso: immagina l’esperienza di visitare un appartamento identico al tuo, ma al piano di sopra. Normalmente questo espediente è impiegato dalle pop divas, che, modulando, hanno la possibilità di proiettare il loro acuto con ancora più potenza, ma il pop e il rock di una trentina d’anni fa ne era strapieno: ne abbiamo parlato poche settimane fa a proposito di Born With A Broken Heart di Damiano David.
Cristicchi, che non è né una pop diva né una rockstar, e probabilmente non nutre velleità da tenore, sa però che un cambio di tonalità alza il tiro. La canzone, fino a quel punto mesta e sobria, risulta più caparbia e inevitabile, come se la risoluzione della voce narrante di stare accanto alla propria madre malata e farle da guida non fosse più un peso, ma un’impresa: una prova cavalleresca che mantiene la promessa di restituire l’amore ricevuto.
Il dialogo a due tra il figlio e la madre diventa così una concione rivolta a tutte le persone che stanno vivendo un simile, tragico frangente di vita. Un artificio acustico con conseguenze retoriche: perché queste persone, direttamente coinvolte, sono invitate a sentirsi non più vittime, ma protagoniste della loro triste storia. Del resto, questo stoicismo è contenuto proprio nel ritornello del brano (“Eh, è ancora un altro giorno insieme a te"), la sezione che a ogni ripetizione dovrebbe inchiodare il concetto alla nostra memoria.
Ma non basta. Cristicchi e i suoi coautori (Brunialti e Amara) sono anche ben consapevoli del fatto che l’immedesimazione passa solo in parte dalla lettura razionale della storia: accettare che la propria condizione di figlio di una madre malata ribalta i ruoli è un bel concetto, ma perché possa “arrivare” davvero e quindi convincere il pubblico generalista serve un coinvolgimento emotivo maggiore. Del resto, l’arte retorica fin dai tempi di Demostene, Cicerone e Quintiliano ci insegna che per ricevere una risposta vigorosa dell'uditore serve riversare altrettanto nella propria oratoria. L’emozione, in musica, segue una semplice equazione che parafrasa i Beatles: quella che ricevi è uguale a quella che inserisci (anche mettendola in scena, se serve). Così, se non fossero bastati i vecchi trucchi sfoggiati finora, la tirata finale della canzone ha un altro effetto speciale in programma.
Alla fine del secondo ritornello, sentiamo una sottodominante che cede il passo al suo parallelo minore, artificio talmente ubiquo nelle composizioni di quest’annata da risultare quasi banale – abbiamo scritto poche ore fa di questo stratagemma, parlando della canzone di Olly. Nel caso di Quando sarai piccola questo breve passo falso nella tenebra è funzionale al lancio di una nuova sezione del brano, un bridge che come tale sarebbe superfluo perché non c’è nessun ulteriore passaggio logico da aggiungere. In compenso, costruisce davanti alle nostre orecchie un perfetto teatro dell’emotività: il giro armonico è più tirato, l’arrangiamento più concitato e arricchito da una cascata di violini, la performance vocale volutamente inelegante e accorata – l’intonazione non serve più di tanto, a questo punto della faccenda.
C’è dell’altro. Prima di servirci un ultimo ritornello, arriva il tripudio. Quando sentiamo i versi “ci sono pagine di vita, pezzi di memoria” parte un crescendo che non consiste solo in un aumento di volume o un’intensificazione dell’accompagnamento: è proprio un ingrandimento dell’orizzonte del brano, che a questo punto sfiora il titanico. Lo puoi sentire negli archi che disegnano una linea melodica sui bassi che sale un passo alla volta (Fa, Sol, La: è un cosiddetto “line cliché” ascendente) mentre Cristicchi strilla la sua frustrazione, finché non spicchiamo un salto e ci ritroviamo al Mi bemolle del refrain. Se non sei stato preso all’amo fino ad ora, e se sei ben disposto a farti manipolare da una composizione musicale, questo è il momento in cui la tua resistenza dovrebbe crollare.
Una manipolazione, certo: ma queste sono le regole del gioco della musica, non solo pop. Un gioco al quale Cristicchi partecipa come tutti gli altri concorrenti di Sanremo, che portino con sé temi di rilevanza sociale o meno.
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