Polemiche per il Nobel a Mo Yan: un caso letterario fra talento e politica
Nel mondo della letteratura lo sguardo dei lettori è spesso attratto da nomi che hanno forte eco nel battage dei media e la celebrità di uno scrittore coincide spesso con l’esplosione di ‘casi letterari’: momenti in cui un autore, esordiente o molto navigato, all’improvviso si trova ad essere letto, apprezzato e conosciuto da un pubblico vasto, anche se magari ha una lunga carriera alle spalle. Seguire le scelte fatte dall’accademia del Nobel è interessante perché sono una fonte continua di questi casi letterari, proprio perché sono spesso controverse: ci si meraviglia del perché autori notissimi come Philp Roth o Haruki Murakami non lo abbiano vinto, anche se sono acclamati da tanti critici in tutto il mondo, e ci si meraviglia del fatto che un poeta svedese come Tomas Tranströmer non fosse noto a molti lettori quanto lo era in Svezia prima di vincere il premio nel 2011. La verità è che però oggi non sono riconosciute molte altre istituzioni, oltre al Nobel, di tale risonanza da influenzare, in qualche modo, un canone: una serie di opere che possa essere il simbolo più netto del mondo che le produce.
Nel Novecento alcuni dei più grandi autori oggi classici non lo hanno vinto: a cominciare da Tolstoj (morto nel 1910, vari anni dopo la nascita del premio Nobel e quando era già consacrato come il più importante scrittore vivente) fino a Joyce, Proust, Musil, tutti autori che oggi chiamiamo ‘classici’ e che sono stati ignorati dal Nobel. Eppure le polemiche che segnano ogni anno l’assegnazione del Nobel sono di per sé il termometro di quanto il pubblico (e i critici) vogliano un’istituzione che crei un canone, la cerchino e, polemizzando sulle scelte dell’Accademia svedese, tradiscono quanto sia difficile nel nostro mondo essere d’accordo su quali siano i libri che lo raccontano. Un mondo che si allarga sempre di più verso l’Oriente e dove non ci sono più poetiche forti che reggano ai suoi mutamenti economici e politici.
È per questo che la comunità letteraria polemizza sul Nobel: sembra riconoscergli, in senso lato, un distinto peso politico. Il 10 Dicembre del 2012 il premio di Stoccolma è andato a Mo Yan, pseudonimo di Guan Moye, scrittore di 57 anni e già da molto tempo celebrato come un grande talento. Nel 2005 aveva ricevuto un premio italiano importante (il premio Nonino) ed era già percepito (al contrario di altri Nobel) come un protagonista della letteratura internazionale. Traduzioni dei suoi romanzi in italiano hanno incominciato a circolare già negli anni Novanta, Mo Yan è stato spesso ospite di manifestazioni letterarie in Europa e il suo capolavoro "Sorgo Rosso" è conosciuto anche per un film del 1987 di Zhang Ymou, lo stesso autore di film cinesi di successo in Occidente nel passato decennio, come "Hero" (2002) o "La foresta dei pugnali volanti" (2004).
Nella motivazione del premio data dall’Accademia di Stoccolma si legge che Mo Yan "con il suo realismo allucinatorio forgia racconti popolari, di storia e contemporanei". Ed in effetti la prima cosa che risalta con vigore leggendo le pagine di "Sorgo Rosso" è lo stile epico. Uno stile che trasfigura la narrazione, incline a ripetizioni e che, tramite formule ricorrenti, descrizioni astratte, moltissime immagini e metafore ardite, crea una mescolanza fra il romanzo storico e l’ispirazione mitica. Nel suo discorso l'autore afferma di aver tratto ispirazione da Gabriel García Márquez e William Faulkner, non a caso altri due premi Nobel, indice forse che il Nobel già nel passato ha saputo riconoscere questa tendenza del secondo Novecento ad ambientare opere epiche in luoghi in bilico fra la modernità capitalista e un passato resiliente, come sono sia le campagne di Faulkner che il Sud America di Márquez. "Sorgo Rosso" (1985) è la tarda espressione di questo filone: il libro racconta dei combattimenti truci fra giapponesi e cinesi durante la seconda guerra mondiale, seguendo poi le vicende di una famiglia nella Cina moderna fino alla soglia della Rivoluzione Culturale. E l’opera, man mano che il racconto procede, assume sempre più i contorni della fantasmagoria. Mo Yan è un autore di indubbio talento estetico, e ci sono dei momenti, nella lettura, in cui il suo stile non può non essere riconosciuto, trascendendo le contingenze storiche.
Ma se le polemiche che sempre accompagnano l’assegnazione del Nobel sono indice, come si diceva, che il premio ha un qualche peso politico, ancora maggiormente segnate in un senso politico sono state le proteste, più o meno esplicite e rumorose, per l’assegnazione del premio a Mo Yan. Non ci sono stati dei veri tentativi di discuterne le capacità letterarie, quanto piuttosto una viva indignazione per la sua condotta intellettuale: l’attitudine, a lui imputata, di essere passivo nei confronti del regime cinese. Nel 2000 l’ambito riconoscimento era andato ad un altro autore cinese, Gao Xingian, scrittore in lingua francese, costretto all’esilio e le cui opere furono vietate in Cina già negli anni Ottanta, unico altro autore cinese che ha ricevuto il Nobel.
Herta Müller, premiata con il Nobel nel 2009, scrittrice di talento celebre anche per aver descritto il regime di Ceauşescu, ha definto “sconvolgente” l’assegnazione del Nobel a Mo Yan, e pare sia quasi stata sul punto di piangere. Le voci di protesta sono state tante e il rapporto dell’autore al potere politico cinese è stata, già da prima del Nobel, sovrapposta polemicamente al giudizio sulla sua opera. Una sovrapposizione inevitabile, perché un’opera letteraria ha sempre un qualche peso politico, anche se le effettive posizioni di Mo Yan nei confronti del Partito Comunista Cinese pare siano difficilmente rintracciabili con chiarezza nei suoi scritti, dal tono così aurorale e astratto. I suoi riferimenti al potere sono spesso metaforici, allusivi e molti hanno intravisto nelle sue opere vere riflessioni su questo tema, da cui traspare una personalità, però, non incline ad esporsi. Mo Yan è stato una sorta di aedo della Cina rurale post-bellica, uno scrittore che sembra ancorato alla tradizione storica cinese, di cui la Cina di oggi sembra quasi volersi ammantare e che al contempo disconosce nella realtà concreta, sempre più occidentalizzata.
Gli atti che hanno suscitato polemiche sono invece atti di silenzio (Mo Yan significa letteralmente ‘non parlare'), come la mancata firma all’appello per la liberazione del dissidente politico Liu Xiaobo, permio Nobel per la Pace e critico letterario cinese e il ritiro da una celebre manifestazione letteraria, la Buchmesse di Francoforte, che vedeva la partecipazione di altri scrittori cinesi dissidenti. Si deve tener presente che già ben prima della vittoria Mo Yan era ritenuto un autore molto importante, e il suo silenzio è suonato in modo molto forte. Altri episodi ancor più eclatanti hanno avuto l’effetto di una provocazione: ad esempio la commemorazione del Discorso sull’arte e la letteratura (1942) di Mao Zedong, in cui si dettavano i canoni di un’estetica letteraria.
È stato addirittura scritto che l'istituzione del Nobel abbia voluto assegnare questo premio come una forma di scambio, di risarcimento, a causa delle reazione che la Repubblica Popolare ebbe dopo la premiazione di Liu Xiaobo. Altri pongono l'accento sulla preminenza del valore estetico delle sue opere, che in qualche misura trascenderebbero la realtà politica in cui sono nate: del resto ciò accade sempre, per gli autori del passato. Ma le istituzioni, ed è questa la nostra tesi di fondo, sono per loro natura delle realtà politiche, e quando esprimono un giudizio lo fanno sull'intera realtà del testo, senza poter prescindere dalla contingenza storica, che è parte integrante delle opere d'arte e di cui le stesse istituzioni partecipano. Questo Nobel ha dunque un peso politico, anche se tale peso non è stato voluto o cercato.
Non vi è dubbio infatti che Mo Yan incarni contraddizioni vissute dalla cultura cinese contemporanea, come un simbolo: aperta all’Occidente eppure prona su una chiusura politica che fa coincidere la narrazione storica di se stessa con un presente da questa sempre più distante.