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Pippo Delbono presenta “Sangue”: il film che ha scandalizzato il Festival di Locarno (INTERVISTA)

Il regista ligure Pippo Delbono racconta ai nostri microfoni il suo ultimo film: “Sangue”, una pellicola che racconta gli ultimi istanti di vita della madre, ripresi con un telefono cellulare. In programma a Napoli, alla Sala Assoli, fino a domenica 26.
A cura di Andrea Esposito
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Pippo Delbono o si ama o si odia, difficile restare indifferenti. E infatti il suo ultimo film “Sangue”, presentato alla 66esima edizione del Festival di Locarno dove ha ricevuto il premio Don Chisciotte, è stato massacrato da alcuni (molti per la verità) e definito “geniale” da altri, in testa “Le Monde” che ha scritto: “Delbono è un poeta e un regista che reinventa il cinema contemporaneo”.

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Il film, girato con una telecamera digitale e un telefonino, racconta il viaggio di due anime disperate costrette a condividere una perdita lacerante. Il primo è lo stesso Delbono, che riprende con cruda disinvoltura l’agonia dell’anziana madre; l'altro è Giovanni Senzani, ex capo dell’ala più feroce e sanguinaria delle BR che, scontata la sua pena e tornato in libertà, è costretto a fare i conti con la morte della moglie la quale, pur non avendo condiviso le scelte del marito, lo aveva atteso per oltre vent’anni. Il tutto incastonato tra le immagini, anch’esse crude e desolanti, del centro storico dell’Aquila.

Insomma, come avrete capito, ce n’è abbastanza per scatenare un putiferio. Ma, del resto, tutta l’opera di Delbono è giocata sull’eccesso e su un autobiografismo compiaciuto e graffiante, perverso e ossessivo. Tuttavia, va detto che il regista ligure non è certo il primo ad affrontare con i mezzi del cinema il racconto della morte, basti pensare all’ossessione mai realizzata di Warhol di “filmare l’ultimo istante” o a Wim Wenders che con “Nick’s movie, Lampi sull’acqua” (1980) ritrae gli ultimi giorni di vita di uno dei suoi maestri, il grande regista americano Nicholas Ray. Oppure Dereck Jarman che con “Blue” (1993) realizza un testamento cinematografico in cui alterna riflessioni sulla morte, sulla malattia (morì poco dopo di Aids), sul sesso e sul cinema.

“Sangue” però si spinge oltre, molto oltre, generando un surplus di rimandi, un’ipertrofia di segni (le Br, la lotta armata, l’umanità del mostro Senzani, il lutto personale e quello altrui, la fede, le macerie dell’Aquila…) che pesano sull’opera facendola, a nostro avviso, franare su se stessa. Metteteci pure che la cifra stilistica scelta dal regista è volutamente e forse spericolatamente naïf: in un’epoca in cui le immagini dei videofonini rappresentano, soprattutto per le giovani generazioni, uno dei filtri privilegiati attraverso cui la realtà si rivela, spingere così oltre il confine del “filmabile” può generare una pericolosa complicità con lo spettatore, con il suo lato più oscuro, piuttosto che stimolare una condivisione emotiva, empatica. In definitiva, se lui è un artista “maledetto” e voyeur perché mai lo deve diventare anche il pubblico?

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Abbiamo sottoposto queste e altre domande a Delbono a margine della “prima” del suo film a Napoli, alla Sala Assoli, dove resterà in programma fino a domenica 26. È singolare che un’opera di un’artista così conosciuto e ormai consacrato, non solo in Italia, non trovi distribuzione nei canali ufficiali e debba essere “circuitato” solo per pochi giorni e solo in una piccola sala d’essai, peraltro teatrale. Ma questo è un problema antico che non riguarda certo Delbono. Lasciateci però sottolineare l’intraprendenza e l’operosità dei gestori della suddetta Sala, i quali proseguono strenuamente il loro lavoro di divulgazione teatrale e, in questo caso, cinematografica dandoci la possibilità di vedere film come questi.

In conclusione, nell’intervista Delbono costruisce delle argomentazioni sicuramente più morbide e condivisibili rispetto alla pellicola, tracciando delle simmetrie tra il suo lavoro e quello dell’artista francese Sophie Calle che pochi anni fa, al Palais de Tokyo, tenne una mostra macabra e, secondo noi, esile sul piano poetico, proprio dedicata alla morte della madre. Non per essere bacchettoni o antiquati, ma che nell’arte contemporanea, da Hirst in avanti, vi sia un ritrovato interesse per un tema come la morte è un fatto, però è vero anche che il cinema non può e non deve essere inteso come appendice di un discorso che si completa con la biografia o le presunte intenzioni del regista. Altrimenti non è più cinema.

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