Pietro Ingrao: il comunista eretico
È morto Pietro Ingrao. Nacque in un’Italia in bilico tra il pacifismo operaio e la voglia della “guerra igienica” dei nazionalisti. Crebbe in una famiglia agiata, tra le terre rocciose del basso Lazio, dove si aggiravano feroci briganti, in quella Lenola che sarebbe diventata provincia di Littoria, poi Latina.
Ricordando il suo paese, in una delle ultime interviste, affermava: «Provo una sensazione fisica molto precisa, pensando a certe serate dell'infanzia. Il mio era un paese contadino, con ceppi patronali e gruppi di artigianato. Fu mio nonno Francesco, siciliano di Girgenti e garibaldino, a costruire quella casa a metà strada tra il paese e il colle. Lenola era allora sul confine tra il Regno dei Borbone e lo Stato pontificio. Dalla casa che saliva verso il colle del santuario c'erano balconi che si affacciavano sull'orizzonte e io provavo un'emozione molto forte quando riuscivo a cogliere, stavo per dire acciuffare, il sorgere della luna dietro le spalle montuose. Specie nelle notti d'estate, guardavo la corona di montagne, con cieli gremitissimi di stelle: quello spettacolo che inondava il cielo del suo chiarore è diventato per me il simbolo di un oltre che alludeva ad altri mondi». Lì sulle gambe del nonno mazziniano, fuggito dalla Sicilia per evitare la condanna a morte, si alfabetizzava alla politica. Sarà disceso da questa arteria eretica della sinistra italiana il suo continuo agitarsi rispetto alla celebrazione dell’ortodossia. Nell’immaginario collettivo, infatti, Ingrao è l’uomo che avrebbe potuto portare il comunismo italiano, depurandolo dallo stalinismo e dalla ritualità leninista, sulle sponde del laburismo. Un movimentista, per riprendere la condanna mossagli dai compagni rispettosi del Centralismo democratico.
Una posizione che maturò, probabilmente, proprio grazie alla sua origine alto borghese. Il nonno fu a lungo sindaco del paese e la famiglia apparteneva alla ricca borghesia terriera. Una una borghesia schietta, senza la puzza sotto il naso, ma che gli dà la possibilità di studiare (ben due lauree una in Giurisprudenza e l’altra in Lettere e Filosofia) e di dedicarsi alla poesia. Ciò non significa che fosse un molle o un intellettuale a tempo perso. Del resto è proprio grazie alla poesia se da vincitore dei Littoriali si ritrova convintamente nella schiera degli antifascisti, dopo l’aggressione di Mussolini alla Spagna, poi a Milano con Vittorini nella redazione clandestina de L’Unità e, infine, impugnando le armi negli anni della Resistenza.
Così conobbe la sua Laura, figlia dell'antifascista Giuseppe Radice e sorella di Lucio: «Durante la lotta clandestina, faceva la staffetta: ci serviva per evitare i segugi della polizia. Per tutelarci, spesso ci incontravamo ai concerti che si tenevano nella Basilica di Massenzio: un alibi buono per passarci i messaggi clandestini». Sentiva verso quella ragazza un trasporto non comune ma all’inizio fu difficile per la sua indole da contadino non ancora raffinato: «Avevo degli aspetti un po' rozzi, lenolesi diciamo così, campagnoli, avevo un'idea un po' volgare, e quindi è successo che in uno di questi incontri a Massenzio, in modo un po' sgarbato e sbagliato ho tentato di darle un bacio, e mi son preso un ceffone solenne. Come a dire: siamo qui per lavorare, queste cose levatele dalla mente e non rompere le scatole». La falsa partenza non impedì a Laura e a Pietro di avviare una lunga vita insieme, di sposarsi e di avere cinque figli. Laura morì nel 2003. «Abbiamo avuto una vita di grande comunicazione, anche se, senza dire bugie, io non è che fossi uno stinco di santo. Provai un dolore assai aspro quando quella sua luminosità umana mi abbandonò».
C’è sempre stata in Ingrao una vena malinconica della politica che pareva rapprendersi sul volto rugoso sovrastato dal naso “importante”. La malinconia forse gli veniva anche dalla poesia o dalla sua passione per il cinema. Tra il 1934/35 frequentò, infatti, il Centro sperimentale di cinematografia studiando da regista: «La passione per il cinema, per noi, significava da un lato riflettere sulle potenzialità espressive di un'arte nuova, che portava nuove problematiche nel mondo letterario e culturale con cui già ci confrontavamo. Il passaggio dalla parola all'immagine – tra l'altro all'inizio eravamo tutti a favore del cinema muto contro il sonoro – apriva problematiche molto differenti. Anche se poi i tempi del "ritmo" e del "montaggio" in fondo li ritrovavi già nella poesia. Ma soprattutto il cinema era uno strumento per parlare con grandi masse, che poteva avere un'enorme influenza sulla società, e dunque per noi era il linguaggio ideale dove confluivano le riflessioni teoriche e la volontà di rinnovamento sociale. E poi ci divertivamo tanto».
Il suo antifascismo fu il portato di una serie di fattori: l'educazione familiare, la poesia, i rapporti di amicizia. La vittoria ai Littoriali della cultura e dell'arte paradossalmente diventò la chiave di volta del suo destino: «Partecipai con una poesia francamente brutta sulla bonifica delle Paludi pontine, scritta con sincerità apologetica, e Dio me lo perdoni. Sembrerà curiosa questa combinazione, ma ai Littoriali di Firenze incontrai l'antifascismo. Non racconto frottole! Gli amici con cui avrei fatto la cospirazione e la battaglia antifascista erano tutti lì. Fu una svolta. Mi precipitai al caffè delle Giubbe Rosse, dove conobbi, tra gli altri, Montale e Bertolucci». Mentre al Centro sperimentale di cinematografia conobbe Gianni Puccini che per la prima volta gli mostrò Charlie Chaplin: «Ci ha sconvolto e trascinato: l'immagine della macchina e di come l'operaio sta dentro la macchina l'ha rappresentata Chaplin quando si incastra negli ingranaggi tipici del capitalismo che dilaga nel mondo. La passione per il cinema si è mescolata a quella per la poesia. Con l'incontro tra generazioni a Firenze è cominciata la cospirazione». L’Italia perde un regista poeta e guadagna un comunista eretico.
Potrei continuare a seguire il solco biografico ricordando la direzione de L’Unità, il mandato da deputato per dieci legislature, la Presidenza della Camera (il primo comunista ad occupare quel seggio, lasciato anzitempo nel 1979, fatto davvero inusuale per la politica italiana) ma non voglio comporre un’elegia, né un’agiografia. Mi basta a questo punto ricordare il suo intervento all’XI Congresso del PCI, nel 1966, in cui, rompendo la liturgia comunista, rivendicò il "diritto al dissenso". Diventò, così, quasi per inerzia, punto di riferimento dell’ala sinistra del PCI, ovvero di coloro che volevano rifondare l’identità comunista infrangendo il muro dello stalinismo. Intorno alla sua figura si riunì il gruppo de Il Manifesto che, continuando la battaglia del dissenso, pubblicò, dal 1969, un rivista politica mensile in contrasto con la linea maggioritaria del partito (in particolar modo rispetto all'invasione sovietica della Cecoslovacchia, con l'editoriale uscito nel secondo numero intitolato "Praga è sola") che ne chiese la sospensione. Si innescò un conflitto interno che condusse il Comitato centrale del PCI (24 novembre 1969) a radiare Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Aldo Natoli con l'accusa di "frazionismo". Successivamente furono adottati un provvedimento amministrativo per Lucio Magri e non furono rinnovate le iscrizioni per Massimo Caprara (dal 1944, per 20 anni, segretario personale di Togliatti), Valentino Parlato e Luciana Castellina. L’espulsione dei “giovani” dal partito rappresentò per Ingrao un momento di crisi profonda, ma non interruppe l’intenso dialogo con questi compagni e soprattutto con i movimenti sociali, esplosi nel ‘68-‘69, e in particolar modo con le lotte operaie e con l’esperienza innovatrice del “sindacato dei consigli”.
È su questa piattaforma che incontrò negli anni Settanta il giovane e carismatico Antonio Bassolino conquistatore della federazione comunista di Napoli, sottratta all’influenza trentennale di Giorgio Amendola e dei miglioristi. Un incontro che ebbe il suo apice nel passaggio dal Pci al Pds. Anche in questo caso l’eretico non si sconfessa: tra il Si e il No tira fuori un bel Ni. Nella sua biografia ufficiale c’è scritto: «Nel 1989, Ingrao si oppone alla svolta di Achille Occhetto che trasformerà il PCI in PDS, ma è contrario ad ogni ipotesi di scissione. Nel 1991 aderisce al PDS, come leader dell’area dei Comunisti Democratici».
In realtà, se si vuole comprendere il senso di quella scelta bisogna andare a scavare nelle cronache della campagna congressuale. Troveremo allora una gremitissima platea napoletana in cui il vecchio maestro espose le sue idee per la nuova sinistra: «A chi va dicendo che se non passa la proposta di Occhetto nel Pci ci sarà il caos vuol dire che in troppi non hanno abbandonato i metodi stalinisti. Il partito va cambiato ma facendo saltare la struttura verticistica esistente che consente a pochi di comandare e a tutto il resto di sprecare energie per spiegare le decisioni. Dobbiamo rovesciare la piramide. Mi si chiede spesso che politica proponi? Ebbene io chiedo di trovare alleanze dentro la società: i giovani, le donne, gli studenti, il Mezzogiorno, i disoccupati, gli sfrattati, questi gli spazi dove trovare alleati per cambiare la società e mobilitare le masse, perché solo con la mobilitazione delle masse in Italia si ottiene qualcosa, a cominciare dal cambiamento del sistema elettorale. Questo è il mio movimentismo, la mia politica fumosa – detto in maniera ironica – che vuole far saltare il blocco di potere che impedisce ai progressisti di trovare spazio per il loro impegno e per i loro sogni».
Al netto del linguaggio politico condizionato dai tempi, vi è dentro una visione di società in cui la sinistra ha un ruolo ben preciso di allargamento dei diritti di cittadinanza, di partecipazione della base, di mescolamento tra politica e società civile, di tutela degli emarginati, di dinamismo creativo che non mi pare di aver colto nella classe dirigente postcomunista degli ultimi vent’anni. Si può non essere d’accordo, eppure Ingrao aveva tracciato un cammino da seguire; ma gli eretici, come sempre accade, sono eternati dalla storia e condannati dal presente.