Pietro Castellitto: “Non sono di destra, ma quando scrivi non devi avere posizioni rigide”
"Feroce" è l'aggettivo che Pietro Castellitto utilizza per presentare "Gli iperborei", il suo romanzo d'esordio edito da Bompiani. A Fanpage.it, lo scrittore, regista e attore fornisce le chiavi di lettura di questo esordio potente per franchezza e precisione d'intenti, proprio come è stato per "I predatori", il suo esordio alla regia premiato alla sezione Orizzonti a Venezia 2020 e con un David di Donatello nel 2021, come regista esordiente (ci sono anche due Nastri d'Argento per la sua interpretazione e per quella di Massimo Popolizio).
"Gli iperborei" racconta la storia di quattro amici che si conoscono dall'infanzia, raccontata in prima persona da Poldo Biancheri, uno tra questi "figli di" famiglie importanti, che sono cresciuti con l'educazione delle migliori scuole, allevati con valori progressisti. Valori dai quali si distaccano con la giovinezza e, alle soglie dei trent'anni, nel chiedersi quale posto occupare nel mondo, finiranno per affrontare la vita con ferocia e con sprezzo per la vita stessa, rovesciando i loro insegnamenti, le loro origini. Sono questi gli iperborei, come il popolo mitico che viveva nella perfezione fino a stancarsi della vita gettandosi in mare da una rupe.
Un romanzo in cui i protagonisti svelano e attaccano le ipocrisie e le contraddizioni dei valori progressisti, potrebbe spingere a pensare di Pietro Castellitto come un intellettuale di riferimento per i liberali di oggi (e di domani). Gliel'ho abbiamo chiesto dritto per dritto, lui non ci ha pensato due volte: "Assolutamente no. Io ho seguito il carattere dei personaggi e la loro storia mi ha portato a creare determinati antagonisti. Quando scrivi devi essere molto post-ideologico nel capire dove sta il potere. Se hai posizioni rigide, vedrai il potere solo da una parte. Per raccontare un certo spaccato, era giusto non far finta di niente. C'è tutta una società progressista, che poi abbraccia in un certo senso anche valori liberali, che ha un potere enorme; in letteratura come in economia. Ma non è un libro politico, assolutamente. È un libro che parla di ragazzi, che parla di disperazione".
Un libro nichilista, ma che contiene anche tratti di squisita ironia, come quando il protagonista lascia germinare una sinossi di qualcosa che non sarà mai pubblicato, "Guelfi e Ghibellini", dove un impiegato licenziato decide di rapire il figlio di un rapper famoso e riconsegnarlo "a patto che il cantante si cancelli per sempre da Instagram". Passeranno gli anni, l'impiegato è ormai un vecchio anziano che vive nelle campagne giapponesi. Lo accudisce un uomo di bell'aspetto, "è il bambino rapito, oramai adulto" mentre, dall'altra parte del mondo "il suo anziano padre biologico canta al Gay Pride sopra un carro di draghi: non accettò mai di pagare quel riscatto". Su questo aspetto, lo scrittore:
L'ironia è parte integrante del mio approccio alla vita. Ho sempre creduto che la relazione che c'è tra l'uomo e la natura è ironica. Non essere ironici, significa non vivere in fondo. Non va confusa col cinismo, perché altrimenti l'ironia è un limite. Bisogna, però, riservarsi la possibilità di ridere su tutto quanto è di più sacro, lì è la salvezza. Nonostante in questa epoca da qualche parte non si possa.
Ma sul "politicamente corretto", sulle questioni del "non si può dire più niente", "non si può fare più niente", Pietro Castellitto è perentorio:
Penso sia fondamentale accettare che nella vita c'è una soglia prima della quale un gesto è un cattivo ricordo. Superata quella soglia, ci stanno i reati. Se superiamo quella soglia, abbiamo una semplice sostituzione del potere.
"È tutto falso, ma per pochissimo", scrive nei ringraziamenti finali, lasciando quasi intendere che ci sia qualcosa di autobiografico: "Vuole, invece, far intendere che è tutto inventato. È una metafora estremizzata di qualcosa che in partenza esiste ancora, un po' proprio come leggende, che hanno un fondo di verità da qualche parte". Un libro che ha dedicato a suo padre, Sergio Castellitto, e sua madre, Margaret Mazzantini: "Un libro è molto più intimo di un film. Ritrovi negli scaffali cose che hai scritto per solitudine e per conto tuo. Mi sembrava sano e giusto dirgli qualcosa. Per quanto riguarda mia madre, sulle faccende finali della vita è il suo giudizio che conta sempre un po' degli altri. Mio padre è una persona responsabile, mi ha educato al lavoro, nonostante ho conosciuto il senso di responsabilità col tempo, perché di natura non ce l'ho".