Giovane e piangente al cospetto di Al Pacino. Esordisce così – in un ruolo più ampio – Philip Seymour Hoffman al cinema. Esordisce a 25 anni recitando la parte di un adolescente di buona famiglia, lui che pochi mesi prima era stato arrestato per taccheggio.
E' quel suo volto rotondo, quella faccia a metà tra teatro e cinema che ammalia i registi con cui lavora. Ammalia Spike Lee che nella sua 25ora gli cuce addosso il personaggio del professore ebreo di buona famiglia. Un ruolo complesso, intenso. Perché a Hoffman e al suo berretto tocca rappresentare New York, o almeno una parte di essa.
Spike Lee lo sceglie proprio per la sua capacità di incarnare la Grande Mela. La incarna con il suo accento da East Coast, con le sue origini che mischiano antenati Inglesi, Irlandesi, Tedeschi e Olandesi. Con la storia familiare democratica e sempre in prima linea per i diritti civili. La mischia con i suoi lineamenti che nulla hanno a che vedere con un attore – Craig Ferguson non lesinò battute in merito quando lo intervistò – quanto, piuttosto, con il vicino di tavolo che potresti ritrovarti in un "diner" aperto in piena notte all'angolo di una strada di New York.
Per questo Philip Seymour Hoffman era "diverso". Perché quegli occhiali, quella camicia aperta sulla maglietta, quella "pancia" e quel modo autoironico di rapportarsi alle persone facevano di lui l'antitesi della star.
E' rimasto lo stesso anche dopo l'oscar per Truman Capote – A Sangue Freddo. Un ruolo complicato in cui piega le corde della sua voce per riprodurre quel suono stridulo che lo scrittore americano emetteva. Ha preso le sue sembianze, i suoi movimenti, il suo modo di parlare. E' stato Capote più di quanto Capote stesso non lo sia stato nell'ultima parte della sua vita.
Un attore totale capace di coniugare ruoli leggeri come in Almost Famous o nel Grande Lebowski a ruoli drammatici. Un attore carismatico che riempie la scena con i suoi lineamenti, con la sua fisicità. Capace, con le sue mani grandi e con le braccia grosse di trasformare, in The Master, ogni gesto in un frammento indispensabile dell'inquadratura.
Quelle braccia che parlano anche in film non bello come Mission Impossible 3. Quando il laccio che tiene stretti i suoi polsi sembra incapace di contenerli. Sembra che la carne voglia debordare e rafforza, con un semplice frammento, quelle sue parole di vendetta che, invece, esprime con un volto freddo e una voce glaciale.
Un attore che in Synecdoche, New York è stato egli stesso la sineddoche di New York e del suo mestiere, coniugando cinema, teatro e Big Apple in una sola interpretazione che, probabilmente, rimarrà il suo ruolo più complesso. Perché è complesso prendere pezzi della propria vita (il teatro e New York) e restituirli allo spettatore. Hoffman ci riesce. E lo fa grazie al suo carisma, conducendo lo spettatore nel luogo in cui tutto è possibile: il palcoscenico di un teatro. Lo fa come solo chi ha amato quel palco più della propria stessa vita può fare. Lo fa perché solo chi è stato un grande attore può condurci nel luogo fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni.