Philip Roth, il compleanno di uno scrittore. Omaggio all’autore per i suoi ottant’anni
La scrittura di Philip Roth (il quale proprio oggi, 19 marzo, compie ben ottant’anni) più di ogni altra, fin ora, fra quelle di autori viventi, ha ottenuto consensi e successo. Il successo, si sa, è il segno che si è dentro ad un corso particolare, un solco che conduce in una direzione esistenziale che può diventare la stessa di chi legge. Roth, c’è da dire, questo solco se l’è scavato con costanza, sfidandosi sempre.
Nell’ ‘affascinante’ aneddotica del mondo letterario americano, quella che gli dà quella patina a metà fra il santo e il leggendario che tanto piace alla cronaca, si ricorda talvolta la recensione di Saul Bellow (l’altra grande leggenda della narrativa ebraica) a Goodbye Columbus, il primo libro di Philip Roth, nel 1959:
“ Goodbye Columbus è un’opera prima, ma non è opera di un principiante. Al contrario di quelli fra noi che vengono al mondo urlando, calvi e nudi, Mr. Roth vi compare con le unghie, con i capelli, con i denti e parlando in modo coerente.”
La ‘leggenda’ Philip Roth emerge così, come uno dei tanti emblemi della cultura americana del secondo dopoguerra, dal racconto anatomico dei nuclei familiari, la narrazione lucidamente intima del vissuto di personaggi importanti per l’identità della nazione americana (e dunque, in buona misura, anche per la nostra). Al centro dei suoi romanzi c’è spesso l’identità di un singolo, e questa identità è vista disfarsi, sgretolarsi, e rifluire nel contesto storico da cui sembra emergere. I romanzi di Philip Roth sembrano dunque dovere il loro successo alla capacità di aver trovato il ponte più convincente, più convincente che in qualsiasi altro romanziere (persino di altre ‘leggende’ della stessa generazione) fra mondo e singolo, fra la coscienza narrante o narrata e il corso degli eventi. Il nucleo del talento di Roth ci appare, dunque, un nucleo tragico, come tragica è la struttura portante, lo scheletro delle sue più grandi costruzioni narrative.
E la tragedia raccontata nei romanzi di Roth (romanzi dallo stile ‘witty’, furibondo, esplosivo, a volte frenetico e a volte dimesso) è quasi sempre la tragedia del mondo che cambia, o dell’inatteso avvenire dei fatti intorno al soggetto. È forse questo senso tragico che rende i romanzi di Philip Roth così unici e diversi da tutti gli altri. Tragico, ben inteso, che, per aderire così bene alla narrazione, per essere così partecipe della vita del soggetto, diviene esso stesso stile. Ci spiegheremo meglio: uno dei più criptici giudizi recenti su Philip Roth viene da Jonathan Safran Foer, l’autore di Everything is illuminated, che ha dichiarato:
“Alcuni dei migliori libri sull’Olocausto non trattano affatto dell’Olocausto, penso ad esempio al Lamento di Portnoy”
Cosa vuol dire questa frase? Il lamento di Portnoy è un romanzo simbolico per gli anni settanta americani, perché narra della frenetica mania sessuale di uno membro dell'upper class (guarda caso) ebreo, in tempi di rivoluzione sessuale. Questa frase vuol dire esattamente, a nostro giudizio, che Roth ha stilizzato, cioè sublimato in stile, il peso tragico della coscienza ebraica che in fin dei conti non fa altro che portarsi ‘appesa al collo’ come una valigia scomoda, come un impaccio che si cerca sempre di sistemare da qualche parte ma non fa altro che riemergere come i corpi immersi nell’acqua.
Questa sublimazione, questa capacità di leggere il senso tragico nella storia –attraverso il romanzo, che è il genere letterario par excellence nella storia e sulla storia- si esprime stilizzando nei suoi personaggi una coscienza tutta contemporanea eppure così intrisa del segno concreto degli eventi trascorsi, rendendo la vicenda degli ebrei in America, in tal modo, incredibilmente vicina al passato e al contempo così ‘altrove’. È questa la capacità più importante (in Roth veramente esaltata) del romanzo: quella di far emergere i fatti narrati come grumi di senso ben saldati, ben connessi, con una vicenda più grande, un fluire quotidiano che li disfa e li riproduce senza elscluderci dall’opportunità di poterli visitare dall’interno dell’io dei personaggi. Ecco perché la frenesia erotica di Portnoy è il portato, sublimato, ma più convincente di altri, della storia tragica dell’etnia cui Roth si è sempre nevroticamente e dialetticamente rapportato.
Solo un autore con questa sensibilità così schiettamente romanzesca poteva dare alla luce, infine, quello che forse è il capolavoro di una carriera e cioè Pastorale americana. Il valore di questo libro non sta tanto nella forma, nella prosa romanzesca, che è comunque per Roth tra i momenti più distesi e maturi, quanto nel fatto che manifesti una dote rarissima, ovvero quella di sapere cosa è necessario raccontare, come, quando e perché sia necessario scrivere un romanzo, individuando un nodo cruciale, veramente una frattura epocale, dando l’idea, come un fulmine a ciel sereno, di avere, nel 1997 (anno in cui il romanzo fu pubblicato), ritrovato il punto esatto da cui era precipitata la valanga della storia americana.
Pastorale americana è la storia dello Svedese, un ex atleta e imprenditore, che vede polverizzarsi davanti ai suoi occhi il ‘mondo della vita' che si era costruito, a causa dei guai cui lo espone la figlia durante le rivolte studentesche. Non siamo a conoscenza, di fatto, di nessun altro testo letterario in grado di palesare in un modo più disarmante quello che è sotto gli occhi di tutti oggi, ovvero l’enorme influenza che quella frattura generazionale, fra la cultura borghese industriale post-bellica e la rabbia dei movimenti giovanili del sessantotto, ha avuto sulle nostre vite. È proprio da questa frattura che sono emerse, del resto, la vena creativa di Roth e la sua attenzione a rendere la complessità delle relazioni umane. Ed è proprio il fatto che la nostra società sta ancora dialogando con questa frattura che rende contemporaneamente questo libro un successo editoriale e un capolavoro compiuto.
Sul finire del 2012 Roth ha annunciato, con una perentorietà cui è proclive ll suo carattere, di voler smettere di scrivere. Questo rende ancor più necessario ricordare il suo ottantesimo compleanno, anche se sospettiamo che egli abbia deciso di abbandonare quello che per lui è sempre stato un mestiere frutto di impegno quotidiano, ma non abbia esaurito la sua vena. Tuttavia queste sono solo congetture. Ciò che conta, come ovvio, è quel che Roth, in questi ottant’anni, ha già scritto.