Perturbazione: “Abbiamo affrontato De Andrè con rispetto, ma senza farne una figurina”
Nel 2010 ai Perturbazione fu chiesto di rileggere a modo loro La buona novella, uno dei concept album più noti di Fabrizio De Andrè. Di quell'evento – a cui parteciparono anche Alessandro Raina e Nada – unico esiste un'unica registrazione che tanti anni dopo è diventato il disco di ritorno di una delle band che hanno scritto la storia del pop italiano. La buona novella è stata riletta rispettando l'anima di De Andrè, ma senza farne una figurina, rispettandola ma mettendoci comunque se stessi, come ha spiegato il cantante Tommaso Cerasuolo in un'intervista a Fanpage.it, in cui ha affrontato questa storia durata tanti anni, le canzoni mondo, ma anche il futuro dei Perturbazione e le conseguenze della Pandemia sulla band.
Come nasce l’idea di portare in giro proprio La buona novella?
È un piccolo dono del tempo, perché abbiamo suonato quel disco, reinterpretandolo completamente, nel 2010, in un'unica rappresentazione che fu commissionata dalla Scuola Holden di Torino che aveva incaricato il musicologo Alberto Jona di organizzare un evento attorno al quale suonare l'album. Con lui dialogammo attorno a questa idea e ci venne in mente di arricchire le voci che cantavano quel disco dal palco, anche perché questa cosa andava incontro a una funzione narrativa: le voci della Buona Novella sono tante, sono tutti i personaggi attorno alla figura di Gesù Cristo, che è centrale ma anche assente, ed era bello che ci fossero più generazioni, una più giovane rappresentata da Alessandro Raina e una più matura rappresentata da Nada che oltre a essere anche un'interprete con tutta la sua personalità era un'interprete femminile, anche perché queste voci oltre a essere tante sono anche tante voci di donna, mentre nella tradizione dei Vangeli che sono tutti scritti da uomini su uomini, questa cosa non si trova.
Infatti l'ispirazione non fu quella…
Sì, Fabrizio De Andrè si ispirò ai Vangeli apocrifi.
Come mai vi ritrovate questo concerto?
Per fortuna registrammo tutto lo spettacolo; allora eravamo in tour con Del nostro tempo rubato, il nostro disco uscito allora e l'attività era intensa, e benché ci fosse la volontà di replicare quell'evento unico, alla fine è diventata una di quelle cose finite nel cassetto per tanti anni, dopodiché è arrivata la pandemia, con l'uscita dell'ultimo album di inediti, Disamore, e abbiamo cercato di vivere quel tempo con tutte le sue complessità, ma un po' per motivi personali legati alla cura familiare e ai lavori di ciascuno di noi, gli ultimi due anni sono stati di pausa e silenzio. Quando hai maggiore confusione in te, la cosa migliore da fare è restare in ascolto e questo ci ha dato modo di guardarci alle spalle. È stato molto bello, perché è stato una specie di regalo arrivato dagli amici che girano attorno a questa storia, come i fonici che registrarono e a un certo punto ci hanno scritto dicendo che avevano riascoltato quei file e ci consigliarono di farlo anche noi.
Quattordici anni dopo…
Sì, parliamo di un anno e mezzo fa. Così li abbiamo riascoltati, poi li abbiamo mandati a Gigi (Giancursi, ndr) e Elena (Diana, ndr), che erano i nostri compagni perturbati di allora – negli ultimi dieci anni i Perturbazione sono stati un quartetto -, e anche loro sono rimasti colpiti, poi li abbiamo mandati a Nada e Alessandro che si ricordavano bene di quello spettacolo, e sono stati contenti di rivederlo. Pian piano abbiamo cominciato a dirci che sarebbe stato bello vederlo replicato, finché Luca Bernini, il nostro manager, ha fatto sentire l'album a Warner. Insomma, è stato un lavoro circolare, c'è voluto del tempo ma tutto si è concluso in modo naturale, visto anche che quest'anno sono 25 anni dalla scomparsa di De Andrè.
Come avete affrontato l'approccio all'album?
Nell'approcciarci a questo lavoro abbiamo cercato di avere rispetto per la partitura originale, ma anche di non affrontarla troppo con un timore reverenziale, altrimenti si rischia di trasformare De Andrè in una figurina. Alla fine gli anniversari credo che servano anche per ricordare e restituire quella che era la persona, non solo il personaggio.
E come si fa a non farne una figurina?
Cercando di essere noi stessi. All'epoca chiamammo anche Dario Mimmo, che è un polistrumentista di Torino, quindi sul palco eravamo sei musicisti più tre voci e avevamo il violoncello di Elena, Dario suonava il bouzuki, la fisarmonica, quindi avevamo tanti strumenti che stavano nello spettro più acustico della prima parte del disco. In quelle partiture orchestrate da Gian Piero Reverberi, c'è molto di quegli anni, erano contemporanei di Morricone, di tanta musica cinematografica, erano partiture talmente preziose che non c'era da inventare granché. Era nella seconda parte del disco, nel Testamento di Tito, in Via della Croce o Laudate Hominem che c'era più spazio. In generale non c'è mai l'approccio di doverlo fare strano per forza e tantomeno di dover essere didascalici rispetto alla restituzione di una canzone, deve vibrare qualcosa, bisogna fare bene quello che ti viene bene e a forza di risuonarlo capisci quali frecce hai al tuo arco. Rispetto ai timbri di De Andrè, alle sue medio basse, la fatica la trovavo nel canto e così la cantavo e ricantavo fino a trovare la cifra. È importante essere se stessi nell'interpretare gli altri, il rispetto che gli devi è anche non mentire su se stessi.
Quell’album uscì nel 70, in pieni anni di rivolta studentesca, e sembrò quasi un controsenso, si pensava che De Andrè dovesse affrontare quei temi, eppure un senso l’aveva… Qual è la cosa che ti affascina maggiormente di quest'album?
È una storia antica, di duemila anni, che rispetto ai 40 che ci separavano dalla Buona Novella e agli attuali 54 o 55 rimane un tempo ridotto rispetto alla storia secolare legata a quelle storie, ma la cosa interessante è che De Andrè dica a se stesso che se la togliamo alla secolarizzazione che ha avuto, se guardiamo alla persona, abbiamo la risposta anche a quelli che sono i grandi quesiti di questo nostro tempo che ci vede così polarizzati: tutto sommato ci piace immaginarci all'ombra di un campanile invece che di una altro. Questa cosa sicuramente rimane attualissima, oltretutto ragionare della distanza che c'è tra la persona e il personaggio, quello che la mistificazione fa alle persone, in un tempo in cui in tanti di noi siamo una cosa a casa e un'altra cosa quando siamo su degli schermi, penso che sia un'allegoria potente, ragionando anche su quello che il Potere tende a fare alle figure come quella di Gesù Cristo rivoluzionario, ma anche a ognuno di noi. Sono tutti temi attuali, oltre al fatto che quel messaggio rivoluzionario, antico di 2000 anni, rimane un enigma in un tempo nostro estremamente insanguinato.
Il Testamento di Tito è un po’ una canzone mondo, come Com’è profondo il mare. Dentro c’è la visione del mondo, parla dell’attualità più di tante canzoni che sembrano attuali e non lo sono…
Sono tutte cose contemporanee, pensa a Dio è morto di Guccini oppure, nel Cinema, al Vangelo secondo Matteo di Pasolini, o a Jesus Christ Superstar, sono tutte cose parallele, ciascuna col proprio linguaggio, ma hanno in comune questo filo rosso.
Mi sembra che ce ne siano sempre meno di canzoni che riescano a ragionare in maniera così complessa, ma fruibile, del mondo e dell'attualità. È una cosa che noti anche tu?
Quelli che definiamo classici lo sono perché riescono a definire un tempo che al di là di quel tempo storico rimane un'allegoria valida per certi tipi umani e quindi ci riferiamo a grandi storie per rifinire un atteggiamento, usiamo dire Dr Jekyll e Mr Hide perché Stevenson fornì la perfetta metafora per descrivere un carattere bipolare, prima di avere la parola schizofrenia. Credo che De Andrè attraverso personaggi come Bocca di Rosa, Marinella etc abbia sempre cercato di vestire la misura tra la persona e quello che ne fa racconto della società, la distanza che c'è tra individuo e società, penso che per lui la Società fosse importantissima e senza giustizia non riuscisse a immaginarla, ma allo stesso tempo stesse dicendo: attenzione perché la società tende a contenere l'individuo ma anche a schiacciarlo e c'è una distanza che ogni volta, nel racconto, si fa di quella persona e com'era veramente si consuma un enigma.
E perché, secondo te De Andrè è stato rivoluzionario?
Credo che De Andrè rimanga grande e rivoluzionario perché ha fatto quello che è più importante fare nella scrittura, ovvero fare domande e non essere per forza quello che dà tutte le risposte. Mi viene in mente anche Misurata preghiera in Anime Salve, che è l'ultima canzone che ci lascia e che è veramente una specie di testamento.
Dori Ghezzi che ne pensa di questa operazione?
Per rispetto, prima di far uscire questa, cosa ci siamo detti: spediamolo alla Fondazione e sentiamo cosa ne dicono loro.
E…?
Ne sono stati contenti di ascoltarlo e ci hanno dato l'ok. Ci sembrava giusto così, non abbiamo viglia di cannibalizzare De Andrè, penso che i grandi classici vivano anche del fatto che siano costantemente reinterpretati da tutta una corrente di cose che sta intorno a quelle opere, è stato fatto in molti. Perché quella cosa è una possibilità per i giovani e giovanissimi di ricordarsi che quel lavoro racconta storie che abbiamo bisogno di sentire.
A quando il prossimo inedito dei Perturbazione?
Per ora non abbiamo fretta, è stato un tempo di silenzio e riflessione, avevamo scritto qualcosa dopo Disamore, ma erano canzoni irrisolte. Poi c'è stato anche tanto vissuto attorno a quello che è stato il dramma pandemico per tutti, oltre a vicende familiari, la cura dei propri genitori, a volte la perdita, quindi c'è stato tutto questo da elaborare. Mi piace pensare che La buona novella sia una buona novella anche per noi, perché in fondo ci restituisce una cosa che abbiamo seminato nel passato e ci incoraggia a farne di nuove, ma non abbiamo fretta, abbiamo voglia di vivere questo tempo attorno a La buona novella risuonandola questa estate, per ora viviamo il presente.