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Perché tutti amano il K-pop, Seoul Mafia: “Ha caratteristiche uniche, difficili da trovare in Italia e negli Usa”

Seoul Mafia, noto content creator italiano che vive in Corea del Sud, racconta a Fanpage.it le caratteristiche, l’evoluzione e i nuovi trend del K-pop, la musica pop coreana che negli ultimi dieci anni ha conquistato il mondo.
A cura di Lorena Rao
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Stray Kids (Photo Credit: JYP Entertainment)
Stray Kids (Photo Credit: JYP Entertainment)

Dal sogno americano a quello coreano. Nell’ultimo decennio, il K-pop, la musica sudcoreana, è diventata un fenomeno internazionale, contribuendo alla diffusione della cultura pop made in Corea del Sud. Ritmi orecchiabili, coreografie ipnotiche, costumi accattivanti, effetti visivi d’avanguardia e strategie di marketing innovative hanno portato a una vera e propria mania internazionale per gli artisti K-pop, chiamati idol. Anche l’Italia è inclusa: dopo il successo degli Stray Kids a Milano nel 2024, il gruppo è pronto a esibirsi anche quest’anno nel Bel Paese con una data prevista a luglio allo Stadio Olimpico di Roma. Ad agosto, a Milano, ci saranno le BLACKPINK. E questi sono solo alcuni esempi: già a gennaio e a febbraio 2025, l’Italia ha accolto anche i tour di P1Harmony, Ateez e Kiss of Life.

Per capire meglio il fenomeno dirompente del K-pop, noi di Fanpage.it abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Marco Ferrara, meglio noto sul web come “Seoul Mafia”. Trasferitosi in Corea del Sud per inseguire il sogno di diventare un idol K-pop, ha avuto una carriera musicale prima di trovare successo su YouTube. Sul suo canale, che oggi conta oltre 650mila iscritti, racconta la cultura coreana, il mondo del K-pop e la sua esperienza di vita in Corea. Nel 2021 ha pubblicato il libro “Tutta colpa del K-pop”. Tra i suoi ultimi progetti, il brand skin-care OKSU. In altre parole, Seoul Mafia si impegna per condividere e diffondere tutte le sfaccettature della cultura coreana attraverso la propria lente personale.

Il tuo primo approccio con il K-pop è avvenuto in Italia o direttamente in Corea del Sud?

Mi sono trasferito in Corea del Sud proprio per il K-pop! Prima adoravo Britney Spears. In generale, ho sempre avuto la musica attorno a me, perché la mia è una famiglia di musicisti e cantanti. Questo mi ha permesso di aprirmi a generi musicali molto diversi tra loro, tra cui il K-pop. L’ho conosciuto nella sua seconda fase, quella delle Girl’s Generation per intenderci. La prima fase, quella degli anni ‘80 e ‘90, meglio lasciar perdere, era una musica di tutt’altro tipo.

E cosa ti aveva colpito?

Mi piacevano le coreografie, tant’è che mi divertivo a replicarle con delle cover su YouTube. Tra l’altro all’inizio pensavo fosse musica giapponese: nei primi anni 2000, la cultura coreana era praticamente sconosciuta in Italia, a differenza di quella giapponese, molto popolare per via di anime e manga. Ai tempi, poi, la musica K-pop andava già molto forte in Giappone, quindi non era raro imbattersi in versioni ufficiali giapponesi delle canzoni pop coreane, senza aver sentito prima le originali.

Com’era condividere la tua passione per il K-pop con i tuoi coetanei?

Già a scuola ero esile e timido, figurati cosa poteva succedere se mi mettevo pure a cantare musica “giapponese”. Avevo paura di essere “lo sfigato”. È online che ho trovato un luogo in cui poter esprimere liberamente la mia passione e sentirmi parte di un gruppo, di una community.

C’erano dei siti o dei forum di riferimento?

Principalmente YouTube. Ci si scambiava pareri sulle canzoni e idol preferiti soprattutto sotto i video cover, quelli che facevo anche io da ragazzino. Alla fine la sezione commenti diventava un luogo di ritrovo virtuale.

Parliamo di tempi in cui il K-pop era una nicchia. Poi è arrivato il successo internazionale. Possiamo collocarlo nei primi anni ‘10 del 2000 con i BTS e le Blackpink?

Assolutamente sì.

E quali sono stati gli elementi di svolta?

Sicuramente i social. I BTS  ad esempio sono stati capaci di crearsi attorno una grossa community grazie a contenuti social in cui si mostrano a 360 gradi. È una svolta importante. Nella seconda fase del K-pop, gli idol rappresentavano personaggi ben definiti: nei gruppi c’era “il bello”, “il ballerino” e così via. I BTS invece, rivelandosi come persone, sono riusciti ad attrarre un pubblico che apprezza non solo le loro performance ma anche la loro umanità. Aggiungiamo poi che il K-pop, nonostante la sua maggiore internazionalizzazione, resta un genere con delle caratteristiche uniche, difficili da trovare nella musica, ad esempio, americana, men che meno italiana. Il K-pop si basa sulla musicalità sì, ma anche su coreografie, effetti visual, costumi alla moda, elementi su cui la musica occidentale investe sempre meno. È davvero difficile pensare a un corrispettivo occidentale di pari livello alle attuali produzioni coreane.

Blackpink (ph Frazer Harrison:Getty Images for Coachella)
Blackpink (ph Frazer Harrison:Getty Images for Coachella)

Anche tu nel tuo canale hai trattato il lato oscuro del K-pop, ossia le condizioni di lavoro degli idol. La situazione oggi è cambiata?

C’è qualche miglioramento. Ad esempio, le Craxi [gruppo intervistato da Seoul Mafia nda] hanno detto di avere a disposizione uno psicologo di gruppo. Certo, non si tratta una terapia individuale, ma è comunque un passo avanti rispetto a quando facevo io il trainee [aspirante talent selezionato e allenato dalle agenzie di intrattenimento, nda]. Anche i testi trattano ormai tematiche profonde, pure legate alla salute mentale, pensiamo a “Love my self” dei BTS. Resta però la pressione dell’agenzia, che lavora per fare in modo di creare un’immagine perfetta degli idol agli occhi dei fan.

Un controllo pressoché totale della vita privata.

Sì, al di là dei ritmi frenetici dovuti allo studio di canto, ballo, dieta ed esercizio fisico, c’è pure il controllo della propria immagine. Per dire, sono successi dei casi per idol immortalati a fumare una sigaretta, o peggio una canna. C’è poi anche il discorso relazioni, che diventa ancora più complicato quando si parla di artisti omosessuali, perché tutto questo non riguarda solo gli idol ma le figure pubbliche in generale in Corea del Sud. Ci sono diversi esponenti sposati e con figli che celano la loro sessualità per non avere problemi. Su questo fronte la Corea del Sud è indietro rispetto a noi. Questo non vuol dire che non esistono personaggi pubblici gay, però quello che noto, soprattutto tra i content creator, è un’auto-ghettizzazione che mette al centro l’essere gay per fare azioni quotidiane – esempio: gay va a fare la spesa – senza andare a fondo sulla questione. E questo è un problema.

Visto che sei stato trainee, puoi dirci nel dettaglio com’è il rapporto con l’agenzia?

Si sente molto la pressione. L’agenzia organizza tutto nei minimi dettagli per far sì che il gruppo ottenga successo. Per riuscirci occorre essere perfetti, nell’estetica, nel canto, nel ballo, nella performance. Questo vuol dire allenarsi al massimo e sacrificare vita privata e studio. Qui poi entra in gioco un altro fattore: rendere fieri i propri genitori. Avere successo come idol diventa priorità assoluta, anche perché, avendo poco tempo per lo studio, è difficilissimo avere la giusta preparazione per poter intraprendere la carriera universitaria. Insomma, non è scontato avere un piano B. Quindi si dà il massimo per un senso di riconoscenza nei confronti dell’agenzia, ma anche nei confronti della propria famiglia, che è la prima a investire su di te e il tuo futuro in questa scelta.

E invece per quanto riguarda il rapporto tra idol e pubblico?

Bisogna fare una distinzione tra il pubblico coreano e quello internazionale. Racconto l’episodio de Le Sserafim al Coachella 2024 per far capire la differenza. Durante la loro esibizione ci sono stati alcuni errori. Il che è comprensibile, anche perché non è facile mantenere l’intonazione perfetta mentre si ballano coreografie così articolate, infatti spesso in Corea i gruppi si esibiscono in playback. La reazione del pubblico occidentale è stata dunque comprensiva, mentre quella del pubblico coreano è stata critica e distruttiva.

Quali saranno secondo te i trend del K-pop del prossimo futuro?

Negli ultimi tempi in Corea del Sud stanno spopolando i gruppi con idol realizzati dall’IA. Dietro ci sono persone reali, ma tutto quello che vediamo è reso con l’intelligenza artificiale. Seoul si sta quindi riempiendo di bar e locali a tema, a dimostrazione che questi gruppi e questi investimenti riscuoto successo, anche in termini di fatturato. Questa tendenza mi preoccupa, anche perché va ad esasperare il discorso della perfezione prima trattato. Non so però se questa declinazione avrà successo anche all’estero.

Possiamo dire che il K-pop è un genere crossgenerazionale?

Assolutamente! Sì, il K-pop è percepito come un genere per i giovani, per i suoi colori, costumi e coreografie accattivanti. Io lo vedo come un modo per far emozionare la parte bambina che c’è in ognuno di noi. Senza togliere il fatto che ci sono testi che, come abbiamo visto, trattano temi importanti in cui tutti possono immedesimarsi. Inoltre non è che ascoltare il K-pop esclude tutto il resto: io posso amare il metal, ma posso anche apprezzare gli effetti visual della musica pop coreana. Questo spiega perché agli eventi o nei tour che organizzo in Corea del Sud mi ritrovo dalle mamme ai bambini. Una prova che la cultura coreana può abbracciare tutti senza distinzioni d’età o gusti musicali.

Puoi consigliare a chi si vuole approcciare al K-pop tre gruppi che rappresentano l’evoluzione del genere?

Inizierei con i Super Junior, perché rappresentano al meglio l’unicità del K-pop della seconda fase fatta di coreografie, effetti visual e costumi. Poi sicuramente i BTS, per il discorso dei social e dell’umanizzazione della figura dell’idol. Infine gli Stray Kids. Quando ho saputo del loro concerto a Milano nel 2024 ho capito che il K-pop non è solo una nicchia, ma può arrivare ovunque e a chiunque.

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