Perché Taylor Swift piace a così tante persone
Perché a così tante persone piace il cioccolato. Perché è buono, ok. Ma perché ci risulta buono? Esistono risposte varie, più o meno scientifiche. Ma tutti accettiamo questo dato di fatto. Eppure, esistono persone che non sopportano il cioccolato. Sono strane? Forse, eppure il punto di vista di questi non rende falso il gusto degli altri. Ma con le canzoni funziona così? Esiste una scienza che ci riveli con certezza cosa piace, cosa no, e perché i gusti sono così distribuiti? Non proprio – altrimenti qualche casa discografica l’avrebbe già messa in pratica sistematicamente. La musica è il prodotto di una cultura, la stessa che partorisce i criteri di giudizio estetico con i quali possiamo valutarla: perciò, ogni discorso sul gradimento di una canzone dovrebbe passare da qui. E allora, cosa possiamo dire del successo enorme, globale, indubitabile di Taylor Swift? Perché le sue canzoni piacciono a così tante persone, e fanno provare imbarazzo ad altrettante? E perché le persone che adorano queste canzoni sono disposte a stare ore in coda fuori dallo Stadio San Siro di Milano per sentirle eseguite dal vivo dall’artista in persona, come accadrà nei concerti di sabato 13 e domenica 14 luglio?
Prima di proseguire, serve una premessa, che vale anche per tutte le altre decine di articoli del sabato che abbiamo dedicato a capire “perché una canzone funziona”: scoprire questa meccanica del gradimento per alcuni non significa togliere la libertà delle preferenze degli altri; siamo liberi di non amare musica popolarissima e di adorare musica ignota ai più; è anche consentito preferire un’altra epoca di canzoni pop (tiro a indovinare: l’epoca della tua giovinezza) all’attuale produzione musicale in commercio. Nulla di quello che segue toglierà a nessuno i propri sacrosanti diritti. Ma se sei qui per capire “perché Taylor Swift piace a così tante persone” devi metterti per cinque minuti nei panni di queste persone. Tu non ci troverai niente dentro, ma loro sì. Perché sono stupide e prive di gusto, pensi tu? Prego, puoi risparmiarti le successive 10mila battute. Se invece sei interessato a capire come ragiona una cervello diverso dal tuo, leggi oltre.
Per spiegarlo proverò a fare un po’ come l’Eras Tour: pescherò canzoni da diverse fasi artistiche della storia di Swift. Lo farò anche per smentire un luogo comune piuttosto diffuso: Taylor Swift non ha “i pezzi”, nel senso che la sua discografia ha pochi singoli memorabili. La questione ha alcune falle logiche, ma non ricorrerò alle certificazioni (perfino in Italia) per mostrarle. È vero, però, che rispetto ad altre colleghe come Ariana Grande, Katy Perry, Lady Gaga o Adele, Swift ha in catalogo meno hit commerciali, meno canzoni che hanno segnato un anno o un decennio: eppure, sui manifesti di questo tour multimilionario c’è il suo nome. Questo è perché oggi è cambiata radicalmente l’esperienza dell’ascolto. Si tratta di un cambiamento che stiamo vivendo in diretta, e per questo è più sottile da cogliere: cioè, ci sembra strano che il modo in cui i pezzi “arrivavano” a noi nati nel secolo scorso non sia più valido per il pubblico più giovane.
Eppure, la radio è sempre meno rilevante, e così hanno meno importanza i cosiddetti “singoli radiofonici”, canzoni fatte apposta per compiacere qualsiasi genere di demografica, canzoni sulle quali si giocava un’intera carriera perché il mezzo principale di distribuzione non consentiva certo di riprodurre interi LP. Nel frattempo, la tecnologia ha messo a disposizione lo streaming, uno strumento che concede ben altro tipo di controllo, e di conseguenza suggerisce un altro tipo di gratificazione. Sembra un paradosso, ma questa è un’epoca d’oro per gli album se sei un artista di qualche valore e se scommetti sulla relazione tra te e il pubblico (altrimenti, continua pure con i singoli). Quindi, molti ascoltatori preferiscono immergersi nel mondo narrato da Taylor Swift disco dopo disco, perdersi tra le sue note cacce ai dettagli nascosti, gustarsi i temi ricorrenti trasversali oppure unici di una certa fase della sua carriera, e valutare le sue canzoni in base a gerarchie puramente interne. Insomma, esplorano le “ere” di Swift come si naviga tra le stagioni di una serie TV, il che peraltro accresce l’appeal di questo tour strutturato in fasi cronologiche-artistiche. Non direi che non conoscano altra musica (le statistiche ci dicono che questa generazione ascolta più generi di tutte le precedenti), ma godono di quella che preferiscono in virtù di un legame quasi personale, un rapporto di fiducia come quello che compra sempre lo stesso marchio di cioccolato.
Questo cambiamento tecnologico e di abitudini rende più soddisfacente l’ascolto di canzoni che sappiano fornire all’orecchio non soltanto una successione di “hook” – non che a Taylor Swift manchino, come vedremo. Può avere fortuna, invece, un’esperienza quasi narrativa. Il talento di storyteller di Swift è noto, ma in cosa consiste? Prendiamo ad esempio una delle sue canzoni più apprezzate per queste qualità, All Too Well: dal vivo l’artista propone la versione di ben 10 minuti pubblicata nella ri-registrazione del suo album Red, che ha superato il successo commerciale dell’originale del 2011 – a proposito delle diverse usanze di ascolto nell’era dello streaming rispetto alla radio! Si tratta di una lunga reminiscenza (“I remember it all too well”, cioè “ricordo tutto fin troppo bene”), costruito mescolando l’andamento episodico del diario, la struttura solida della sceneggiatura e l’approccio dialogico della lettera rivolta al “tu” interessato.
Nel testo si parla – non deve stupire, parliamo di pop – di una relazione finita male, e l’artista ne introduce le fasi con un chiaro senso del racconto, inserendo fin dalla primissima strofa oggetti (la sciarpa) e temi-guida (la casa) che torneranno nel brano, e non resteranno semplicemente dettagli buttati lì per far sembrare più “vera” e “autentica” una storia. Hai presente le canzoni indie italiane piene di magliette, tazze di caffè, cocktail, sigarette? Quelli sono elenchi di cose, la sciarpa di All Too Well è un simbolo. E i simboli, per quanto possano sembrare banali (una madeleine di Proust, una merendina di Zerocalcare) possono esercitare una forte suggestione: in questo caso, la sciarpa dimenticata a casa dell’ex fidanzato rappresenta l’impossibilità di tornare indietro nel tempo e recuperare quel breve momento di perfetta felicità; l’inesorabile perdita di una parte di sé quando si cresce; la rinuncia a qualcosa di caro che è implicita nella fine di una relazione.
La scrittura lirica di Swift è fatta così: anticipazioni poste all’inizio di un brano che vengono risolte all’apice della tensione musicale e narrativa, cioè spesso nel cosiddetto special; scene ben composte, dove risulta chiara la posizione dei personaggi; con piani larghi e primi piani alternati per creare un ritmo non solo di punti di vista ma di colori e simboli (gli occhi azzurri spalancati e subito dopo il foliage autunnale); una successione di eventi che punteggiano le considerazioni, affinché il tutto assomigli a una storia e non a una somma di pensierini. Certo, non le riesce sempre così bene. Eppure, questa scrittura di testi si è rivelata magistrale (di maestri sono piene le scuole), ma anche di successo. Come mai? Forse perché il pop può non soltanto divertire (cioè, distrarre), ma anche intrattenere (cioè, rapire).
Quando Neil Tennant dei Pet Shop Boys, colui che ha compiuto la leggerezza di chiedersi pubblicamente “dov’è la Billie Jean di Taylor Swift?”, scriveva il testo di Being Boring, mescolando memoria e narrativa, considerazione personale e senso universale del passaggio del tempo, stava facendo proprio questo: catturare la nostra attenzione per invitarci a considerare le vicende che stava esponendo, il nostro tempo andato, le nostre giovinezze perdute, e le persone scomparse lungo la strada. Rivederci, pur nelle nostre differenze, dentro una storia semplice, quasi banale (dall’adolescenza all’età adulta), riconoscendo emozioni comuni, aspirazioni condivisibili. Curiosamente, Tennant e Swift condividono una fonte di ispirazione, Zelda Fitzgerald, modello citato spesso (talvolta tramite allusioni all’opera di Francis Scott) e alluso in più di un brano, tra cui Happiness – difficilmente la canterà a Milano, ma ci si può sempre tornare con lo streaming.
Ma queste sono considerazioni da analisi del testo letterario. La musica non è solo parole, no? E allora, a parte il cambiamento di abitudini che rende meno rilevante la ricchezza di hit commerciali schiacciasassi, a parte la fascinazione per la scrittura densa e (veramente) cinematografica, cosa possiamo rispondere chi cerca “i pezzi”? In scaletta nell’Eras Tour il primo grosso pezzo arriva presto, alla seconda canzone: Cruel Summer è stata scritta da Swift con il fidato produttore Jack Antonoff e l’artista St. Vincent, che suona anche la chitarra nella versione in studio.
La canzone ha più o meno tutto ciò che il pop richiede: un beat interessante, retto da una pulsazione che anticipa e riecheggia gli arpeggi di synth; una miriade di hook vocali modificati con vocoder che generano un effetto di botta-e-risposta negli spazi vuoti delle strofe, ma con un timbro privo di emozione che ben rappresenta il distacco sentimentale del “lui”; un ritornello con un vocalizzo sull’acuto che non ha senso letterale (“it’s uo-oh-oh-oa”) ma che traduce l’angoscia di un conflitto interiore; il ciclo emotivo tra strofe compassate e ritornelli turbolenti, che ha una risoluzione nel bridge strillato (imitato poi da Olivia Rodrigo in Deja Vu) che apre uno strappo e alza la posta in gioco creando compartecipazione nell’ascoltatore. Tutto questo è molto semplice, nient’altro che buona cucina pop fatta con ingredienti alla portata di (quasi) tutti: ma il brano contiene anche la solita perizia lirica, polisemie, rime interne, zeugmi e tutto quello che puoi apprezzare se nella tua vita stai studiando letteratura, magari al liceo, o se quelle nozioni sono rimaste con te.
Perché, naturalmente, Taylor Swift è una cantante che ha avuto e ha come pubblico principale quello più giovane: non più solo Swiftie adolescenti, certo, perché il tempo passa per tutti – anche le persone più giovani che la videro l’ultima volta in Italia oggi hanno 13 anni in più sulle spalle! Ma anche se il target dei suoi ascoltatori si è decisamente alzato, la sua musica (specie quella scritta da teenager, ovvio) ha sempre un legame importante con l’adolescenza. E non è certo un male di per sé: la musica anglofona che abbiamo idolatrato negli anni ‘60 (il beat, diciamo così, all’italiana) aveva come unico pubblico quello dei ragazzini (“spero di morire prima di invecchiare”, diceva una famosa canzone dell’epoca). E chi scriveva le canzoni ne era consapevole.
Ogni pop ha il suo pubblico, parla la sua lingua, esprime i suoi desideri e le sue ansie: da Bing Crosby che suscita la nostalgia del Natale a chi è stanziato oltreoceano con l’esercito, a Billie Eilish che ci invita nella testa complicata e terrificante di una sedicenne; da Elvis che si gasa per le sue scarpe nuove a Prince che fa il vizioso. Dal primo all’ultimo cantante, il pop pone uno specchio davanti al pubblico, e parte di questo vi si riconosce: non è un’identificazione, ma una proiezione, lo sfogo di una repressione sociale, morale, sessuale, di genere, e così via. Swift è una cantautrice romantica, dove la fantasia e poi l’esperienza delle relazioni “importanti” e adulte sono argomenti centrali: come contenuto, non è certo una novità, quindi è l’immagine che si può proiettare, l’identità dell’artista a fare la differenza. E cosa vedono i fan in Taylor? La ragazza della porta accanto (alta 180 cm, bionda e bella, insomma, una fantasia) ma non soltanto: la solita ma fortunata storia dell’artista che ci ha creduto fino in fondo. Se non la vuoi a San Siro solo perché non è un’icona come piace a te, allora dovrai rescindere l’invito anche a Bruce Springsteen.
Swift è un’artista cresciuta con il pubblico, per questo le canzoni scritte quando aveva 18 o 19 anni suonano ingenue e immature come del resto la produzione del 99% dei ragazzi. Eppure, già allora era chiaro il suo talento acerbo. Love Story, una normalissima riscrittura di Romeo e Giulietta al gusto vaniglia, diventa coinvolgente e trascinante non perché propone un finale alternativo piuttosto casto e conservatore al dramma di Shakespeare (i due si sposano) ma perché cattura l’emozione dell’adolescente innamorata, dando a lei la prospettiva dominante, e lo fa con un ritornello tanto memorabile da essere messo al centro del migliore episodio di TV del 2023 secondo la critica (la settima puntata della seconda stagione di The Bear). Certo che le scene da teen movie di You Belong With Me sono quasi caricaturali: invece le atmosfere thriller di Smooth Criminal di Michael Jackson possono reggere il confronto con Carpenter e De Palma? Oppure, in una canzone dobbiamo forse trovare sintesi, semplificazione? Dobbiamo trovare qualcosa da cantare in coro, insomma?
E rieccoci all’interrogativo: dove sono i pezzi di Taylor Swift da cantare in coro? Dappertutto, potrebbe dire il più fanatico degli spettatori del 13 e 14 luglio. Ma, se ci allontaniamo dal culto, troviamo molti altri pezzi che rispondono a questa esigenza. Basta, per esempio, addentrarsi nella fase “pop” della sua carriera, quando ha cominciato a collaborare con produttori-compositori come Max Martin, che per quattro decenni ha dimostrato di non avere pari nella scrittura di successi pop indimenticabili (da Baby One More Time a Blinding Lights). Red è il primo album realizzato con Martin e Shellback (altro hitmaker svedese con pedigree) che hanno messo la firma su tre delle quattro canzoni che presenterà live da quest’era: in particolare We Are Never Ever Getting Back Together ha tutte le caratteristiche del “banger” di questa scuola, dal minimalismo delle parti al massimalismo delle soluzioni con cui le parti sono scritte (notare la cassa che si evolve, da una specie di stomp box country a una grancassa che vibra ogni due battute per tenere viva l’attenzione sul ritornello). Insomma, un altro pezzo forte.
Le cose funzionano per una ragione. A Martin si attribuisce quella che viene chiamata “melodic math”, la matematica della melodia. Senza addentrarci troppo, si tratta di una teoria (sperimentata con un successo senza precedenti) basata su alcuni dogmi: scrivi prima di tutto la melodia, poi costruisci attorno l’armonia; i versi di ogni sezione devono avere un numero pari di sillabe; usa non più di quattro melodie per ogni canzone; queste melodie, se possibile, devono contenere elementi comuni di scansione ritmica o tonale, per riecheggiare internamente (i temi della vecchia musica operistica e sinfonica!). Questi e altri dettami creano nella pratica una canzone che bilancia perfettamente i due fattori di cui parliamo sempre qui ogni sabato: il familiare e il nuovo. Negli ultimi 12 anni è difficile trovare una canzone di Taylor Swift che non risponda a uno o più dei canoni compositivi della melodic math.
Anche le canzoni dei due dischi “indie”, folklore ed evermore, quando ormai la collaborazione con Martin era conclusa, si rifanno ad alcune di queste idee: fai caso a come il refrain della strofa di cardigan (“when you are young they assume you know nothing”, “quando sei giovane danno per scontato che tu non conosca nulla”) sembra plasmare il ritmo del post-ritornello della stessa canzone, lasciando però all’inciso principale di sfociare in un acuto che è anche risoluzione dell’argomento tirato in ballo (“But I knew you”, “ma conoscevo te”); o nota la regolarità geometrica dei versi di champagne problems. Le canzoni di questa fase avrebbero pure altro da dare: arrangiamenti più sottili e temi più adulti; tradimenti ma anche esami di coscienza; storie in terza persona; e poi un lessico inusuale, talvolta forbito; molta arguzia nell’uso di ambivalenze e calembour; un maggiore ricorso a timbri vocali più scuri e note basse. Non è difficile pensare che chi sia stato catturato da adolescente dalla musica della cantautrice, una decina di anni dopo abbia trovato qui, nei dischi “della pandemia”, una pietanza più sostanziosa da addentare. Ma poi si torna sempre al cioccolato.
L’album definitivo di Taylor Swift, 1989, è quello in cui la lezione di Martin ha dato forse il suo massimo risultato. Si tratta di un momento di svolta per la biografia dell’artista (compreso l’inizio della collaborazione con Antonoff) ma anche un tripudio di endorfine per l’ascoltatore. Se dobbiamo metterla sulla conta dei “pezzi”, il disco ha avuto almeno cinque autentiche hit, quattro delle quali certificate perfino in Italia. Ma non fidiamoci troppo delle classifiche: fidiamoci delle orecchie (di chi?). Basterebbe Shake It Off: questa canzone è una delle applicazioni più riuscite delle teorie di Martin, una canzone fatta di tre parti, ciascuna capace di colpire con efficacia diversi punti della battuta per non risultare in un effetto “martellamento”, e con un tema ritmico-melodico (na-na-na-na) che dal primissimo istante della canzone non ci abbandona più per un attimo, ora cantato, ora sostenuto da una trombetta di plastica, con un arrangiamento scarno ma bombastico. Un lavoro talmente ben riuscito da non meritare altre riflessioni: perfino molti critici di Swift riconoscono la forza di questo brano.
Lo show si conclude con due ere, cioè i repertori di due album, i più recenti (ma in ordine inverso): The Tortured Poets Department e Midnights. Dell’efficacia di Fortnight abbiamo già parlato in questo articolo, e la sua resistenza nelle chart (aiutata da alcune ripubblicazioni tattiche di versioni acustiche e remix) può farci sospettare che “il pezzo” ci sia. Del resto, il bene e il male dell’ultimo progetto di Swift stanno proprio nell’aver ripescato in modo fin troppo pigro alcune soluzioni compositive dell’era-Martin: bene per l’efficacia delle canzoni (But Daddy I Love Him è un altro pezzo forte) meno bene per il percorso dell’artista, che fa un passo indietro. Chiudiamo quindi con Anti-Hero. La canzone ha lo stile synth-pop dell’era 1989 e la stessa rigorosa consapevolezza metrico-melodica di matrice svedese; tuttavia, ha il coraggio di presentare tre incisi piuttosto differenti per flow e cadenze, uno dei quali (il pre-ritornello) va a pescare nella parte più bassa del suo registro vocale, facendo grattare il suo timbro ben educato; tutto ciò avviene in un tripudio scintillante, quasi decadente, di tastiere e casse grosse.
C’è pompa magna, ma come se stessimo assistendo al sequel amaro di Shake It Off, dove alla fine le critiche degli hater non sono scivolate via, anzi, si sono appiccicate: Taylor Swift è vissuta abbastanza a lungo (artisticamente parlando) da diventare l’antieroina che gli altri vedono in lei, ci si riconosce, sa che dipingersi come immacolata e innocente non ha più senso né per lei né per il resto del mondo. Certo, tutto questo è raccontato dalla prima popstar a diventare miliardaria senza deal extramusicali (come Dr. Dre, Rihanna o Jay-Z). Cioè, la prima a diventare ricca in modo osceno grazie al sostegno per la sua musica e le sue parole – e grazie ai modi ingegnosi che ha trovato di vendere e rivendere gli stessi dischi ai superfan. Dove sono, insomma, tutti questi critici? Ovunque, neppure la più popolare popstar del mondo può sognarsi un’approvazione universale. Insomma, Taylor è un po’ vittimista, e forse questo giustifica un po’ del suo successo. Ma se anche così fosse, se fosse solo il ricettacolo delle lagne di una generazione, Taylor avrebbe fatto il lavoro di ogni popstar, nessuna esclusa: offrire una catarsi alle pulsioni di tante persone, dare sfogo alle sue repressioni, con una melodia accattivante. Piaccia o meno, come il cioccolato.