Perché oggi esce più musica in un giorno di quanta ne sia uscita in tutto il 1989
Questa settimana una dichiarazione di Will Page ha destato piuttosto scalpore: “Oggi si pubblica più musica in un solo giorno rispetto all’intero 1989”, ha spiegato l’ex Chief Economist di Spotify, piattaforma di rifermento per lo streaming e ormai dominatrice incontrastata della fruizione musicale in tutto il mondo. È una cifra impressionante, se ci pensate, ma che non deve sorprendere perché perfettamente in linea con questa epoca di superproduzione e contenutizzazione totale. Pensate che su YouTube, vengono caricate 500 nuove ore di video ogni minuto.
Perché si produce così tanta musica? Le motivazioni sono tante e non esiste una risposta unica. Possiamo però partire dal dato di fatto che si produce – e si pubblica – tanta musica semplicemente perché oggi è possibile. Ed è un’ottima notizia. Grazie alle innovazioni tecnologiche degli ultimi anni, infatti, tantissime barriere di ingresso sono crollate.
Prima di tutto per quanto riguarda suonare, registrare e produrre musica. Dai programmi gratuiti per registrare, quando non forniti direttamente dal sistema operativo, alla possibilità di acquistare microfoni decenti a prezzi contenuti; dai tutorial su YouTube per imparare a suonare uno strumento o usare un programma per registrare, mixare e masterizzare musica, è evaporato il primo ostacolo di natura economica che le persone che volevano “fare musica” qualche anno fa incontravano: l’accesso. Se le lezioni per imparare a suonare uno strumento e il noleggio di una sala prove erano spese tutto sommato sostenibili, possedere uno strumento decente e, soprattutto, andare in uno studio di registrazione sembravano degli ostacoli insormontabili. Oggi, per fortuna, tutto questo non esiste più e chiunque ha la possibilità di dare sfoggio alla propria creatività.
Un’altra barriera che non esiste più è quella della pubblicazione. Il processo “del mondo precedente”, sia che tu fossi una band o un solista, era pressappoco questo: registrazione di una demo fatta male, giro a vuoto tra etichette discografiche, riviste musicali, concorsi di vario tipo aspettando una risposta (che non arrivava mai). Pochissimi arrivavano alla tanto sospirata pubblicazione (che comportava altri costi, soprattutto per quanto riguarda la stampa del cd – c’è stato un momento in cui il vinile non è stato di moda – e del libretto) dopo aver registrato in uno studio professionale, con tecnici professionisti e strumenti all’avanguardia: l’impressione era che ci fosse un certo qual processo meritocratico, un collo di bottiglia per cui chi riusciva a farsi pubblicare era di per sé già apprezzabile.
Ma per due barriere che non esistono in più, altre barriere immateriali, meno tangibili e immediate, si creano. Rimpiangere i bei vecchi tempi non ha senso. Prima di tutto perché non torneranno (il 1989 non ritornerà), e poi perché non erano nemmeno così bei vecchi tempi. Per una industria discografica che non esiste più, un’altra sta nascendo. E negli ultimi anni tantissimi articoli, studi, report e libri ci hanno insegnato una cosa: si produce tantissima musica ma non ci sono abbastanza orecchie e minuti disponibili per ascoltarla. Inoltre, il meccanismo di funzionamento delle piattaforme ricorda da vicino il meccanismo di gatekeeping che un tempo era appannaggio di radio e televisioni. Citando gli Smiths, per quanto possiamo fare musica fighissima, the world won’t listen.
Io credo sia bellissimo che nel 2024 sia relativamente facile suonare, registrare, produrre e pubblicare musica. So però benissimo che le sfide si spostano da un’altra parte. Per dirla male: chi paga? Per dirla bene: se tutti producono musica, chi è rimasto ad ascoltare musica? E cosa succede a tutte queste canzoni che non vengono ascoltate?
Il modello economico delle piattaforme non premia gli artisti. Negli anni sono emerse diverse criticità sui meccanismi di ricompensa e redistribuzione degli streaming. Quell’utopia della “coda lunga”, per cui la permanenza nei mercati di nicchia avrebbe garantito risultati e ritorni sul medio/lungo termine, si può considerare ufficialmente sconfitta dalla realtà: in uno scenario del genere, chi vince prende tutto e chi vince non è più nemmeno un grande conglomerato multinazionale (la famigerata ‘major’ del mondo antico), ma sono le piattaforme. In questo contesto in cui gli artisti vengono spinti a produrre costantemente musica, non solo non esiste più il concetto di cura e promozione, ma non esiste più nemmeno il concetto di presente e futuro. Quello che resta è un prodotto immediatamente archiviato a servizio di chissà chi e che rischia di restare inascoltato, letteralmente, per l’eternità.
La storia della modernità si lega all’idea di archivio. La letteratura ha provato a leggere le capacità generative dell’archivio, grazie anche alla visionarietà di scrittori come Jorge Luis Borges e Italo Calvino. E l’archivio, ce lo stanno insegnando in questi mesi le studiose e gli studiosi di Intelligenza Artificiale, è fondamentale per addestrare i modelli generativi. Ma è altrettanto vero che questa conoscenza può essere sì costruttiva, ma di fatto rivolta al passato e a quello che già esiste. Stiamo costruendo un gigantesco archivio di “tracce fantasma” che non vengono ascoltate da nessuno, addestrano intelligenze artificiali che potrebbero generare tantissima altra musica che non viene ascoltata da nessuno. Il tutto con il gigantesco costo ambientale di tenere in vita data center che, anno dopo anno, diventano la versione super post-moderna dei cimiteri: tracce che non esistono più e non fanno riferimento a niente se non a un rigo di codice.
In un contesto del genere, è letteralmente impossibile fermare il vento con le mani. Non solo oggi si produce in un giorno più musica di quanto se ne produceva in un intero anno pre-digitale: la tendenza è in aumento e si stima che nel 2030 ci saranno circa 200 milioni di creatori di musica pubblicata in tutto il mondo. Per capirci, è come se l’intera popolazione del Brasile, nessuna persona esclusa, producesse e pubblicasse musica. Una vertigine che, però, ci mette davanti a nuove sfide e nuovi bisogni. Posta la difficoltà di cambiare il meccanismo economico vigente (le piattaforme non sono luoghi di democrazia e redistribuzione del reddito; i concerti diventeranno sempre più cattedrali per il trionfo di poche personalità che si esibiranno a prezzi esorbitanti in posti giganteschi) e considerando quanto sia inutile perdersi nella nostalgia dei bei vecchi tempi andati per cui si crede che a un certo punto sia esistito un “capitalismo buono” (anche gli artisti indipendenti che hanno fatto successo lo hanno detto: di soldi dalla vendita dei dischi se ne sono sempre visti pochini), l’unica alternativa che abbiamo è provare a pensare a qualcosa di davvero diverso. Non in termini di produzione ma in termini di esperienza.
Credo sia necessario tornare a dare una natura fisica alla musica. Se questa non può succedere attraverso i supporti (avete presente quanto costa un vinile adesso? Ecco), forse quello che si deve tornare a fare è ridare senso all’esperienza live. Ridare vita ai luoghi in cui succedono cose. Senza troppi calcoli – i promoter locali oggi organizzano concerti quasi sempre a botta sicura, basandosi sui dati pubblici delle piattaforme in streaming – e anche lontani dalle solite geografie del potere e della gentrificazione. In molti lamentano l’assenza di luoghi nelle province, nei piccoli centri, nelle cittadine in cui una volta si raccoglievano esperienza e si provava a dare un senso di comunità a quel nullo girovagare in tondo che aveva nella musica il suo sfogo naturale. Anche nelle città le famigerate scene sono ormai un ricordo di un passato ostile e controculturale. Forse riappropriarsi dei luoghi, far vedere che la musica, al di là di chi la produce, è anche un fatto che appartiene a chi la vive, può essere una prima strategia per far vivere il presente al di fuori degli studi casalinghi. Altrimenti, i sistemi di riproduzione arriveranno a suonare in una cacofonia indistinguibile queste miliardi di canzoni per un pubblico sempre più assente e sempre più spento, dalla traccia fantasma all’ascolto fantasma. E a quel punto sì che la musica potrebbe morire: non quando nessuno la suona o la produce, ma quando nessuno la ascolta.