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Perché non riusciamo toglierci dalla testa Storie brevi di Tananai e Annalisa

Annalia e Tananai hanno tirato dal cilindro un antitormentone che è già uno dei tormentoni preferiti dell’estate 2024.
A cura di Federico Pucci
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Annalisa e Tananai
Annalisa e Tananai

Nel pop italiano esistono due certezze: a inizio giugno ogni aspirante tormentone estivo degno di questo nome è già in rotazione da almeno due settimane (alla faccia delle stagioni); e a quel punto saranno spuntati anche i primi inevitabili anti-tormentoni.

Quella dell’anti-tormentone è una disciplina antica quasi quanto quella del tormentone: anzi, se vogliamo far partire l’epoca delle canzoni balneari da Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco (estate 1961) o da Pinne fucile ed occhiali di Edoardo Vianello (estate 1962) allora potremmo dire che entrambe sono state precedute da una canzone che esprime il sentimento contrario allo sdilinquimento marittimo e proietta un’energia opposta all’esplosione giovanile: Estate (o Odio l’estate) di Bruno Martino (1960). Insomma, se “la canzone estiva” – così si dice – è un’invenzione tipicamente italiana, altrettanto tradizionale è la maschera del guastafeste (o guasta-ferie). E anche quest’anno l’attesa è stata ripagata, da due figure abbastanza inaspettate.

“Tutti sono al mare e noi no”, dice il ritornello di Storie brevi, la canzone con cui due tormentonisti mica male come Tananai e Annalisa provano a dirottare l’attenzione del pubblico italiano dalla solita estate. Direzione: la città. (In pratica, tutti fermi dove siamo). “Abbiamo troppe cose in ballo”, dicono i due piccioncini. Ma che cosa? Le imprese sensuali a cui i due si dedicheranno con impegno durevole e senza lasciare nulla di intentato, anziché villeggiare in spiaggia (questo è il contenuto della seconda strofa). E forse anche i doveri, le scadenze, gli appuntamenti della vita in città, e che riguardano la sfera sentimentale e sociale, ma anche lavorativa. In questo senso, Storie brevi racconterebbe la stessa vicenda di Splash di Colapesce Dimartino, ma dal punto di vista di due persone che scelgono consapevolmente e tutto sommato allegramente la vita in città, la routine delle non-ferie. I personaggi di Tananai e Annalisa si crogiolano nella loro impossibilità di godersi l’estate, un po’ milanesi imbruttiti, un po’ abbrutiti dal lavoro, un po’ impazienti di darsi da fare con il sesso: tirano giù la tapparella e anziché andare al mare, il luogo dove – pare – fioriscono solo storie brevi, si rifugiano in una vacanza di piaceri carnali e aria condizionata.

Come si può notare, il sentimento anti-estivo non deve necessariamente configurarsi come rifiuto spietato delle abitudini altrui. Spesso è solo un’amara presa di coscienza che le vacanze a noi non spettano. Dopotutto, i dati ISTAT del 2022 sulle vacanze degli italiani dicono che il 13,48% in vacanza non ci va proprio. Ma da una canzone non pretendiamo la verità statistica, ci mancherebbe altro. La canzone – per parafrasare Yip Harburg, paroliere di Over The Rainbow – deve farci “sentire dei pensieri”. Insomma, è il reame della sensazione al servizio di un’idea. La sensazione: “Tutti gli altri siano al mare e noi no”. L’idea: va benissimo così, ci arrangeremo altrimenti. Sotto questo aspetto, l’anti-tormentone è veramente un’alternativa agli scenari proposti dalle altre canzoni balneari. Per esempio, uno dei migliori casi di anti-tormentone negli ultimi anni, Piña Colada di Margherita Vicario con Izi, funzionava proprio perché ci proponeva uno scenario altro: se le ferie sono una trappola capitalista che ci costruiamo da soli, non per questo bisogna starsene tristi in un angolo e non godere della vita.

Per quanto le cose nei decenni si siano fatte decisamente più complicate e sfumate (anche la hit estiva vuole un po’ di “struggle”), la sfera semantica dell’estate nelle canzoni proietta ancora un senso di onnipotenza, eterna giovinezza, energia vitale a cui gli ascoltatori sperano inconsapevolmente di abbeverarsi: ascolti Come un tuono e ti senti in un resort lussuoso con il tuo più uno specialissimo; ascolti Istinto animale e immagini grandi serate in città che proseguiranno in villeggiatura (qui, peraltro, canta la stessa Annalisa che per l’estate 2024 opta di tenere il piede in due sandali). In Storie brevi, invece, puoi sentire un affanno esistenziale. E – come succede nelle canzoni ben composte – era tutto scritto prima ancora che le due popstar si avvicinassero al microfono.

Il languore che senti in Storie brevi discende prima di tutto da un giro di accordi principale (quello del ritornello) diviso in due. La prime quattro battute seguono quel ciclo delle quinte di cui abbiamo già parlato un paio di volte (per Angelina Mango e per Ariana Grande): si tratta di una progressione che non solo dà una netta propulsione di accordo in accordo, ma suona come un discorso compiuto e ben articolato, una catena di cause e conseguenze infallibile. Il giro di I Will Survive segue esattamente questo percorso (e del resto, gli arrangiamenti di violini “disco” già basterebbero a ricordare quella canzone), ma lo fa fino in fondo: è una discesa in chiave minore che si conclude in un trionfo personale, per quanto amaro.

Altre canzoni che si sviluppano su questa progressione, invece, tagliano corto prendendo in prestito l’ultimo accordo dalla tonalità parallela maggiore per concludere con un accumulo di tensione che rende necessario un altro giro di giostra: è così che risolvono la questione i Pet Shop Boys in It’s A Sin, è un modo per rimandare a domani. Storie brevi sceglie di non fare questo salto, e termina “non con uno schianto ma con un lamento”. La cadenza degli accordi potresti averla già sentita nel ritornello di Personal Jesus, e a questa chiusa viene abbinata una linea di basso discendente fino alla tonica: non c’è nessun altro posto in cui andare, sia nella storia narrata, sia nella musica che l’accompagna. Bisogna accontentarsi, godere del momento in cui l’incastro è perfetto, apprezzare la fase di “up” di questa esperienza erotica e poi accettare con pazienza l’inevitabile “down”. Bisogna bastarsi come coppia.

Sopra questo circolo (è il caso di dirlo) vizioso, torreggiano una melodia e delle parole che non fanno che ribadire questo messaggio dolceamaro. La lingua di Storie brevi è un ibrido efficace, che contemporaneamente fagocita l’ascoltatore e le sue abitudini linguistiche banali, mentre lo proietta in un altrove della complicità sensuale e del sogno. Da una parte c’è l’inglese citazionista: ogni espressione presa in prestito sembra pescata dal testo di una canzone (“love is in the air”; “I’ve been missing you”; “you got me feeling”), secondo una tecnica che Annalisa aveva già sperimentato con successo – ma in italiano – in Sinceramente. Come allora, si potrebbe trattare di una caccia al tesoro che chi vuole può seguire per filo e per segno: è un gioco divertente, se non si precipita in tunnel pericolosissimi (i “cuori di plastica” sono una citazione di Miley Cyrus? Se sì, perché mai?!). E mentre fai la somma di “reference” con più o meno perizia, ti ritrovi già in possesso del codice linguistico necessario per parlare la lingua dei due protagonisti: sei messo a parte del loro dialetto segreto, ti senti parte della coppia, anche tu “gatto nero”; e così, sei pronto a credere alla loro intesa, a quest’attrazione che batte ogni cosa, perfino le ferie.

Poi ci sono alcune espressioni che potremmo ricondurre ad ambiti musicali: “un tot” che è trasversalmente rap, da Neffa a Lazza; gli “ecomostri” popolari nell’indie, da Brondi a chiamamifaro. In questo modo si accolgono nel convivio amoroso anche le persone non acclimatate alla seta e al velluto di questo brano: parliamo come mangiamo (“chi ci ammazza?”) e restiamo ancorati al presente. Infine, ci sono i bianconismi (da Francesco Bianconi dei Baustelle), che sempre più hanno preso piede nel lessico di Annalisa. L’incipit della canzone, “sembra l’agosto del ‘96”, potrebbe essere l’esito di una reazione chimica che ha per reagenti Gomma, Le vacanze dell’ottantatre e La canzone di Alain Delon. Questa spia verbale non è solo un vezzo, ma funge da boa stilistica. Come il gruppo di Montepulciano ha dialogato con il passato della musica leggera italiana, facendo interagire l’alto e il basso, lo straniero e il vernacolare, il melodrammatico e il danzereccio; così, Tananai e Annalisa si ricollegano a parte di quella stessa eredità, alla tradizione slow disco e pop conturbante anni ‘70, innestandovi la spinta del revival disco-pop che più di recente è stato portato al successo da artiste come Dua Lipa e Jessie Ware.

Messa a punto l’atmosfera, preparata la macedonia di parole, abbassate le luci e calati i jeans, possiamo perderci in un labirinto di echi melodici che abbattono la nostra resistenza: se senti qualcosa di Ancora, ancora, ancora o Parole parole di Mina; se ritrovi una salita di Gloria Gaynor o una picchiata di Peggy Lee, probabilmente è solo un caso. O magari è il caldo che ti dà le allucinazioni, ed è il segnale che in vacanza dovresti andarci sul serio. O ancora potresti aver trovato il tuo tormentone ideale per quest’anno. Senza mare, senza sole, senza cocktail. Ma con un brand, quello sì: sono pur sempre gli anni ‘20.

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