Perché non riusciamo toglierci dalla testa Open Hearts di The Weeknd

Una popstar non la misuri solo dal numero di successi, dalla cifra accanto a qualche contatore social. Ogni canzone e ogni progetto deve portare dentro di sé, condensato sotto forma di soluzioni musicali e liriche, il messaggio che quell’artista ha intenzione di comunicare: ogni sua mossa artistica, insomma, deve essere enciclopedica. E finché l’artista ha il polso del gusto del pubblico, notoriamente volubile, questo è anche il lasciapassare per ottenere soddisfazioni commerciali. Taylor Swift è una vera popstar, perché – come abbiamo detto – ogni sua canzone è una pillola concentratissima del tutto che questa rappresenta: anche quando cambia (genere, accordo, produzione, acconciatura), la sua figura traghetta il senso verso nuovi lidi. Abel Tesfaye, in arte The Weeknd (forse per l’ultima volta, prima dell’abbandono annunciato del nome), è un’altra popstar di chiarissima stirpe. Il suo ultimo progetto Hurry Up, Tomorrow lo dimostra perfettamente nel brano Open Hearts. Una canzone che, con la sua fattura studiata, la sua ritmicità convulsa e l’interpretazione sopraffina del cantante canadese, è davvero difficile da togliersi dalla testa.
Cominciamo dal team che l’ha realizzata con Tesfaye. Da una parte il produttore-autore Re Mida svedese, l’unico che meriti davvero questo titolo per la sua carriera di purissimo oro e platino, cioè Max Martin. Dall’altra, il connazionale Oscar Holter, un po’ più giovane ma già pieno di discreti successi (uno in particolare, vedremo). Si conoscono bene, perché la hit globale Blinding Lights porta la firma di tutti e tre: di fatto, hanno collaborato strettamente per buona parte dei due album precedenti di quella che The Weeknd definisce la sua “trilogia”, cioè After Hours e Dawn FM. Ma in questo nuovo album, il trio si ritrova soltanto su questa traccia – forse non a caso è stata scelta come ultimo singolo di lancio, presentata allo show di Jimmy Kimmel sulla ABC, con una performance che cancella i confini tra live e cinematografico.
Perché la canzone – come dicevamo – contiene tutto quello che serve per sapere chi sia The Weeknd. Prima di tutto, è una canzone in tonalità minore, come tantissime del repertorio del canadese. In secondo luogo, usa un giro di accordi collaudatissimo nel pop: da Hello di Adele e my tears ricochet di Swift, che condividono ben poco con questo brano se non l’atmosfera irrimediabilmente tragica, fino a canzoni più affini come Swim Good di Frank Ocean o Dark Times di… The Weeknd! Già, perché una popstar non butta via nulla. Anzi, ogni rimando interno è parte di quella ragnatela di riferimenti che fanno di una canzone qualcosa di più: un faro per comprendere chi è veramente l’artista. E chi è? Un vocalist il cui talento va molto oltre la capacità di tenere un falsetto con grazia (cosa che gli riesce per la cronaca). La melodia di Open Hearts, peraltro, raramente fa grandi salti. In compenso, già nelle strofe è costruita come una minuscola sinfonia, fatta di un motivo (il lento trillo discendente di cinque note tra Re e Do) e delle sue tre variazioni che fanno cadere il canto sui tre gradi vicini, in una lenta discesa: Si bemolle, La e Sol. Un capolavoro di semplicità, che porta chiaramente il marchio Max Martin, che Tesfaye incarna appieno: questa non è solo una melodia “triste”, è una gabbia di angoscia dalla quale non è possibile liberarsi.
La raffinatezza della composizione e produzione del brano sta nel dare corpo a questo ingabbiamento lirico anche nella base ritmica e armonica. Con un beat pulsante sulla tonica di ogni accordo, una raffica di note spezzata solo sul finale, avvertiamo quella claustrofobia descritta dai versi “Trapped inside a limbo, watching through a window of my soul” (“intrappolato in un limbo, osservando attraverso una finestra della mia anima”) e amplificata dal movimento discendente degli accordi, e quindi la possibile riapertura che deriva dal successivo innalzamento, quando l’arrivo di un nuovo amore viene paragonato all’apparizione di un angelo (“your halo”). Il tipo di strumentazione, con il basso eccezionalmente compresso e il groove spezzato, ricorda le produzioni dei francesi Justice, in brani come Genesis (di nuovo, l’immaginario biblico). Duo elettronico che, peraltro, è ospite della prima traccia dell’album. E qui, ancora una volta, vediamo dispiegarsi l’essenza della popstar: anche in tracce realizzate con altri team creativi c’è una sintonia con la totalità del progetto, un’osmosi di idee e soluzioni che danno all’ascolto complessivo dell’album un’omogeneità nella varietà, tipica dei grandi progetti pop.
Le timbriche e le liriche della canzone, a loro volta, rimandano al più ampio arco della “trilogia”. Profondamente influenzata dal synth-pop più tenebroso degli anni ‘80, questa serie di dischi aperta nel 2020 si contraddistingue da riferimenti sonori che qui tornano nelle scelte di certi synth che a cascata inondano una battuta alla volta nel ritornello, nel trattamento generale della voce con un particolare riverbero cavernoso, e nel motivo di organetto digitale che chiude il refrain: viene da pensare ai Depeche Mode di Music For The Masses, per esempio, come anche ai New Order di Brotherhood o agli Erasure. Tutte influenze che si possono ritrovare in lungo e in largo nei due dischi precedenti. D’altra parte, il testo è puro distillato di tesfayismi: si faccia caso all’ambiguità anatomica del titolo, questi “cuori aperti” che sono metaforicamente i sentimenti di chi si sta innamorando; ma anche le operazioni a cuore aperto di chi è in fin di vita, come a più riprese viene ritratto il protagonista della “trilogia”. Per non parlare delle visioni angeliche e l’immagine della caduta (gioco di parole sull’espressione “falling in love”) ricordano il percorso di queste tre cantiche dantesche proposte dall’artista canadese: l’inferno di After Hours, il purgatorio di Dawn FM e infine l’aspirazione al paradiso di Hurry Up, Tomorrow. Ascoltare Open Hearts, insomma, riapre discorsi: è come analizzare il proemio dell’Inferno per cogliere allegorie che serviranno a interpretare ogni terzina del poema.
Così, mentre celebra l’arco conclusivo (forse) della sua maschera artistica, Abel Tesfaye ci porta con sé in un viaggio la cui posta in gioco dipende dal nostro livello di attaccamento al suo personaggio. Eppure, chiunque sia in ascolto può partecipare, fosse solo per 3 minuti e 55 secondi, all’esperienza. Anche questo è un talento da popstar, che concepiamo come il suo carisma: saper parlare alle masse mentre comunica con i pochi eletti in un linguaggio segreto fatto di allusioni interne esoteriche. Ma per apprezzare il percorso di questo brano, microcosmo dell’intero disco, l’ideale è arrivare fino in fondo. Qui, al termine della tracklist, si trova la canzone che dà il titolo al disco. Hurry Up, Tomorrow è la dichiarazione conclusiva con cui The Weeknd intende congedarsi dal suo personaggio, dalla sua dipendenza dal dolore, dalla sua propensione a crogiolarsi nelle sue abitudini. “Il paradiso” è quel che vuole, come nella canzone della “signora del radiatore” del compianto David Lynch, che Tesfaye include qui tra gli autori del brano. Non è soltanto un tributo post-mortem. Da quasi un anno The Weeknd cantava In Heaven nei suoi concerti. Chissà cosa avranno da dirsi nell’aldilà il regista e il personaggio. Probabilmente che, ciascuno a proprio modo, facendosi carico della profonda contraddizione su cui si regge il culto della celebrità di Hollywood, visitando paesaggi onirici, giocando con immagini angeliche e visioni organiche, hanno provato a trascendere le cose del mondo attraversandole a braccia aperte. Ciascuno a proprio modo, ciascuno con un successo che non ha senso misurare solo con i numeri. Ma anche fosse, che numeri!