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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa volevo essere un duro di Lucio Corsi

Lucio Corsi è stata una delle sorprese del Festival di Sanremo 2025 con Volevo essere un duro: ecco perché non riusciamo a togliercela dalla testa.
A cura di Federico Pucci
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Lucio Corsi al Festival di Sanremo 2025 (LaPresse)
Lucio Corsi al Festival di Sanremo 2025 (LaPresse)

L’impresa eccezionale, diceva un celebre Lucio, è essere normali. Ma una volta che si è riusciti in questo titanico sforzo, la normalità paga moltissimo. Basta chiedere a Lucio Corsi, che con la sua canzone Volevo essere un duro ha conquistato cuori e orecchie di mezza Italia. Trasformando il musicista maremmano in un fenomeno pop, dalla mattina alla sera, con tanto di concerti negli ippodromi appena annunciati. “Dalla mattina alla sera”, si fa per dire visto che quasi tutta la stampa specializzata ha seguito il suo percorso quantomeno dal suo Bestiario musicale, LP di debutto del 2017. Ma qui sta la prima scelta azzeccata di Corsi: presentarsi con una canzone a un pubblico che, per una ragione o per l’altra, non aveva mai sentito parlare di lui, anziché dare per scontati il suo mondo di riferimenti, la sua poetica, il suo stile.

Volevo essere un duro introduce il personaggio di Lucio, e non lo fa soltanto con le parole: anzi, l’ammissione “non sono altro che Lucio” viene proprio alla fine. Per presentarsi, prima di tutto, serve una certa cortesia e delle buone maniere. Volevo essere un duro, quindi, comincia come tutte le persone che si introducono dovrebbero fare: piano. Cioè, per dirla in termini comprensibili, con un volume moderato, che lascia tutto lo spazio per poter crescere in futuro: come il piccolo Lucio di questa fiaba musicale, un bambino che si proietta sulla grandezza altrui.

Questo, di per sé, non sarebbe nemmeno un espediente così nuovo: l’uso delle dinamiche dal piano al forte per sottolineare l’arrivo di una parte particolarmente importante e a cui sarà bene fare caso è scritto nell’ABC del songwriting. La differenza di Lucio – perché una canzone deve distinguersi per appiccicarsi al cervello – sta nella delicatezza del tocco. Produrre comprimendo il range dinamico delle tracce incise è pratica comune oggi (da 20 anni almeno, in verità), e il risultato è che le canzoni arrivano all’orecchio con una forza deflagrante. Ma anche parecchio estenuante. Chi non ha mai avuto bisogno di un momento di silenzio dopo l’ascolto continuo e prolungato di musica pop recente? Quasi tutta la musica prodotta al giorno d’oggi utilizza questo espediente, con il risultato di una sensazione di chiasso costante. E per questo, un uso più coscienzioso del volume non può non spiccare.

Qualche artista pop si distingue dalla massa, pur rimanendo nei confini stilistici contemporanei: Billie Eilish, notoriamente, privilegia missaggi con un range che, pur non arrivando agli estremi della classica o di dischi d’annata come Pet Sounds, è mostruosamente più vasto rispetto a quanto fanno quasi tutte le colleghe. E questo certamente contribuisce in piccola parte anche al fascino di Volevo essere un duro. Tuttavia, l’ascolto accurato di un giornalista o critico vale una mezza dozzina di stream: l’ascolto distratto, con cuffie di varia qualità, con i settaggi di default del volume di Spotify, filtra di molto questo effetto, e i milioni di stream riversati in questi ultimi dieci giorni sulla canzone in gara a Sanremo (e fortunatamente anche sul resto della discografia di Corsi) pesano decisamente di più. Quindi, cosa cattura l’attenzione dell’ascoltatore?

Prima di tutto, una scrittura dalla consequenzialità tematica senza paragoni, se si confrontano le canzoni sfornate dal Festival. Se la discografia di Lucio Corsi fosse un musical di Broadway o un film cantato Disney, Volevo essere un duro sarebbe quella che i critici americani chiamano una “I Want Song”: cioè una canzone che, nel breve spazio di tre minuti, descrive le aspirazioni ma anche gli ostacoli che l’eroe si trova davanti, e che determineranno il corso della sua vicenda. Per fare un esempio noto a tutti, La sirenetta (l’omonima canzone del cartone animato Disney, intitolata in inglese Part Of Your World) segue un andamento identico, per quanto con riferimenti musicali molto differenti: il desiderio (momentaneamente frustrato) di Ariel viene servito un pezzo alla volta, costruendo insieme al carattere del personaggio anche il contesto in cui vive (“guardate un po’ quello che ho”), e presentandone l’ambizione irrealizzabile (“Vorrei le gambe”) affinché l’exploit finale (“Ma un giorno anch'io se mai potrò esplorerò la riva lassù”) risulti ancora più soddisfacente. Allo stesso modo, Corsi presenta sinteticamente la sua aspirazione (“Volevo essere un duro”), il suo contesto (“Un robot”, cioè un mondo fantastico) e l’ostacolo da superare (“Però non sono nessuno”): tutto in una strofa, con un uso dello spazio davvero encomiabile. Ma Volevo essere un duro è una canzone rock, non il brano di un musical che avrà tutto il tempo, poi, per sviluppare ulteriormente la storia. E quindi Lucio opta per una sintesi ulteriore, quella che rende quasi miracolosa questa bislacca musica pop dietro cui andiamo dietro.

“Vivere la vita è un gioco da ragazzi” è un ritornello di quelli che passano una volta ogni tanto: le sue parole sono piane, comuni (“vivere la vita” è un sintagma che secondo il sito Le Parole di Sanremo era occorso già altre quattro volte, prima di quest’anno); ma la sua scansione simmetrica, con un dondolio dattilico tra sillabe lunghe e brevi (VI-vere; GIO-coda), coccola l’orecchio con grazia eccezionale. Non solo, l’accompagnamento d’archi che segue l’inciso al termine della battuta disegna uno svirgolio che sembra fare da controcanto alla voce di Corsi: e con un tocco d’arrangiamento una filastrocca deliziosa è diventata un tarlo mentale.

Ma a nessuno piace una pietanza che ha una sola nota di sapore, e fortunatamente Volevo essere un duro non si esaurisce nell’eccezionale normalità lirica del suo ritornello, nella grazia delle linee melodiche, nella gentilezza del suo approccio. Tra questa dolcezza e le immagini quasi surreali, ma comunque piuttosto rudi, che popolano le strofe c’è un contrasto: la “medaglia d’oro di sputo”, lo “spaccino”, il “lottatore di sumo” non sono solo personaggi di una storia (in realtà, modelli a cui il piccolo Lucio aspira) ma sono figure anche linguisticamente contundenti, la cui eccentricità risalta subito all’orecchio. E dentro questo contrasto si apre anche una selva di riferimenti che Lucio invita i più attenti ad attraversare.

Un po’ come i “sailors fighting in the dance hall”, i “cavemen” e il grezzo “lawman” di Life on Mars? sono personaggi di fantasia a cui si può aspirare se ci si lascia convincere dalle semplificazioni del cinema, così i “duri” che Lucio vorrebbe imitare sono modelli che non funzionano. Lucio deve riscriversi da zero per poter arrivare alla conclusione che “è inutile fuggire dalle tue paure”. Insomma, il testo ci conduce per mano verso un messaggio molto edificante: scoprire la magia dentro la propria normalità è l’autentico trionfo della fantasia; mentre l’imitazione lascia solo insoddisfatti. Un messaggio che risuona ancora di più se si considera che Lucio l’ha detto in modo subliminale anche con la composizione.

Il giro di accordi della strofa, infatti, è esso stesso una celebrazione della normalità. Gli accordi (Mi – La – Si settima) sono virtualmente i primi che si impara a suonare su una chitarra elettrica se si vuole fare del rock’n’roll. Disposti in questa maniera, inoltre, rimandano a una lunga tradizione di canzoni rock e pop dall’andamento sognante (decisamente appropriato anche per questa traccia): brani come Crimson and Clover di Tommy James and the Shondells o Sweet Jane di Lou Reed, che ne fecero uso mezzo secolo fa e che sono tra le centinaia di brani in cui occorre una progressione simile, sembrano appropriate anche stilisticamente alla canzone di Lucio, noto cultore del glam rock e professato fan di Lou Reed. Da subito, quindi, siamo messi a conoscenza della semplicità di Lucio. Gran parte delle canzoni pop in voga oggi aspirano a un hook micidiale e memorabile o a una palette sonora entusiasmante, ma poi finiscono per assomigliarsi, come abbiamo detto analizzando gli esiti del Festival a cose fatte. Volevo essere un duro, invece, non fa nessuno sforzo per assomigliare a quello che non è. La sua autenticità sta proprio in questo approccio creativo. Scavare dentro i classici, scoprire perché ci fanno emozionare, è paradossalmente più fresco e attuale che qualsiasi stressante ambizione a superare di un millimetro il producer di fianco.

Lucio Corsi a Sanremo 2025 (LaPresse)
Lucio Corsi a Sanremo 2025 (LaPresse)

Questo, in fondo, era il messaggio del glam rock: recuperare le basi del rock’n’roll e piegarle al proprio gusto per liberare la più grande stravaganza possibile, la stravaganza dell’essere normali. Al suo genere d’elezione si potrebbe dire che Corsi deve anche l’immagine stessa di una “canzone di formazione”, termine che prendo in prestito dallo studio letterario dei romanzi. I pionieri del genere (genere che peraltro era rivolto proprio ai ragazzi, perché il commercio si annida anche nelle storie più romantiche) parlavano alla generazione più giovane delle sue sfide e delle sue ambizioni a distinguersi in un mondo conformista.

Non solo, le immagini della crescita, del confronto generazionale, dello scontro tra modelli di vita adulta ricorrono in canzoni caposaldo dell’era glitter, da Children of The Revolution e Cosmic Dancer di T. Rex passando per Oh! You Pretty Things di David Bowie e School’s Out di Alice Cooper. E potremmo aggiungere anche All The Young Dudes e 20th Century Boy, se volessimo inserirci anche il tema dell’identità di genere e aggiungere un’altra canzone di T. Rex che Corsi ha spesso messo in scaletta nei suoi concerti. Certo, questi kids, boys e girls non sono necessariamente in età prescolare, ma nemmeno il “piccolo Lucio” di Volevo essere un duro a conti fatti sembra così infantile: quale bimbetto aspira a diventare “spaccino alla stazione di Bolo”? Quale bimbetto sa cosa sia “Bolo”?! Si potrebbe argomentare che in realtà sono i consumi culturali più in voga (dal cinema alla musica) a infantilizzarci – e a ridurci a brutte copie dei buzzurri già citati di Life on Mars. La canzone di Lucio Corsi, invece, ci invita a crescere senza perdere la magia, senza diventare per questo cinici e disillusi.

Il fatto che questi messaggi si ritrovino in vecchi successi degli anni ‘70 non significa che Lucio Corsi sia poco originale. Prima di tutto, l’ascoltatore medio riceve la sua musica nel minestrone di ascolti pop che le piattaforme propongono quotidianamente: da questo punto di vista, per quanto sembri paradossale, il suo rifarsi a tanta musica del passato suona moderno perché non aspira a somigliare all’ultima canzone di successo. Proprio come il personaggio di Lucio scopre le sue vere inclinazioni una volta scrollate di dosse le ambizioni imposte dagli altri, così l’orecchio bombardato di proposte molto simili scova una freschezza nella musica che non si conforma alla moda dominante. Ma per capire meglio facciamo un ultimo esempio mettendo mano all’armonia, per quanto possibile.

Il ritornello usa un giro di accordi assolutamente classico e inossidabile, lontanamente discendente dal jazz e rimodulato in mille forme e ritmi armonici da Blue Moon a You Don’t Have To say You Love Me, da Last Christmas fino alla recente Birds of a Feather. Parliamo di una successione di accordi dolcissima e soddisfacente, ma non propriamente cinetica. Bene, che ruolo ha il ritornello in Volevo essere un duro? Non è veramente una presa di coscienza attiva, ma piuttosto l’accettazione di uno stato di partenza, addirittura un’ammissione di impotenza. Ma Lucio non si ferma qui, ed è in questo che dimostra una scrittura intelligente.

Al personaggio-Lucio serve fare un salto: abbracciare pienamente questo stato di cose, farne un motivo d’orgoglio e di forza. Ma per questo non basta ripetere il messaggio del ritornello, ha bisogno di esercitare uno sforzo in più per il quale potrebbe servirgli un apporto di energia. Ed ecco che alla fine del secondo ritornello compare una rampa di lancio fatta da due accordi che introducono il bridge (“cintura bianca di judo, invece che una stella uno starnuto”). Non solo, questo passaggio è siglato alla fine della battuta da due note fischianti di chitarra, le note più alte toccate da qualsiasi strumento nel brano, si direbbe. Quando il dialogo non basta più e le emozioni sono soverchianti – si dice tra conoscitori dei musical – il personaggio comincia a cantare: Lucio, quando la posta in gioco si alza, fa cantare la sua chitarra. E dopo quest’ultima spinta, Lucio è pronto a concludere che “è inutile fuggire dalle tue paure” e quindi atterrare dolcemente su un ultimo ritornello.

A volte per inventare non serve cavare fuori dall’aria l’inesistente, ma bisogna solo saper scavare, e farlo con un’intenzione precisa (un “I Want” potremmo dire). Il desiderio di Lucio Corsi era presentarsi all’Italia. E la missione è stata decisamente compiuta.

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