
Alla disco music dobbiamo tantissimo, molto più di quanto crediamo. Molto più delle ore di divertimento in pista e più della diretta discendenza della musica elettronica da ballo che ha generato, house e techno in primis. Potremmo dire, infatti, che la disco ha modellato la musica leggera più di ogni altro singolo movimento culturale. Dalla necessità di produrre hit a ritmo industriale e da alcune solide basi (jazz, soul, funk) la disco ha estrapolato una scienza dell’arrangiamento che avrebbe influenzato quasi ogni produzione a seguire. Perché i produttori e i musicisti che parteciparono a quell’era avevano capito prima di tutti che degli ascoltatori bisogna conquistare prima di tutto l’attenzione. E Tu con chi fai l’amore dei The Kolors è la dimostrazione che quella lezione non ha smesso di essere attuale. Anzi, è più importante che mai.
La canzone, presentata in gara al Festival di Sanremo, è un tripudio di quello che in inglese viene definito “ear candy”, e che potremmo adattare come “zucchero per le orecchie”: si tratta di piccoli segnali sonori, tendenzialmente di breve durata, più frequentemente nel registro alto della scala, che intervengono in modo fulmineo nel brano per intrattenere l’ascoltatore e mantenerlo sempre attivamente partecipe dell’ascolto. Lo “zucchero per le orecchie” serve ad assicurarsi che l’ascoltatore non si annoi e che non sia mai tentato dalla possibilità di cambiare stazione radiofonica o “skippare” a una traccia successiva. Un colpo di tom o una svirgolata di violini, un fruscio di campane tubolari o un trillo di triangolo, ma perfino il rumore del blocco delle corde di una chitarra o uno scratch. Tutti questi minuscoli elementi possono convivere in un solo brano, se il produttore sarà dell’idea che questo o quell’elemento potrà agganciarsi all’orecchio dell’ascoltatore.
Per quanto resti tutto sommato un esercizio di scrittura, questo modo di completare una canzone, spesso in fase “post”, dopo che le incisioni principali sono state sbrigate, ha qualcosa della catena di montaggio – chissà se è solo una coincidenza che molte di queste innovazioni siano uscite dalla Motor Town (o Motown) di Detroit. Con minuscole sovraincisioni, oppure oggi prendendo un suono da una library digitale e trascinandolo con il mouse in lungo e in largo sulla traccia, con un lavoro di ritocchi pittorici più che di grandi pennellate, una canzone si trasforma in una hit. Ed è così, grazie a questo lavoro sottile ma decisivo e al contesto migliore per apprezzarlo, che il brano dei Kolors ha cominciato la sua salita: dal 14esimo posto della classifica finale del Festival alle posizioni più alte delle rotazioni radiofoniche e in parte anche dello streaming.
Il contesto è fondamentale, dicevo. Rispetto alla versione interpretata al Teatro Ariston, infatti, la versione in studio di questo brano presenta in un mix audio inequivocabile e con le giuste dinamiche (volumi) tutte le parti che ne fanno un meccanismo spietato. E l’ascolto in cuffia o in condizioni acustiche più favorevoli aiuta ad apprezzare ogni elemento musicale che arriva, spadroneggia e se ne va nel giro di pochi secondi.

Si comincia con il pianoforte elettrico, che per trentacinque secondi imbriglia la nostra attenzione con questi colpi di ottavi ostinati, leggermente sincopati, che potrebbero ricordare facilmente l’accompagnamento di Roger Hodgson su The Logical Song dei Supertramp: che sia familiare al pubblico o meno, non importa; conta solo che ha funzionato una volta e ora, 46 anni dopo, può funzionare di nuovo. Ma la band inglese arrangiava ancora i brani come da tradizione, dando per scontato che ogni membro della band avrebbe passato il tempo del brano su uno strumento solo: Hodgson, appunto, si dedica alla voce e al Wurlitzer per l’intera durata della canzone. Nelle produzioni eredi della disco, invece, si può operare in modo meno economico, puntando solo all’efficienza. Dopo averci suggerito il tempo e lo sviluppo armonico, quindi, il piano elettrico di Tu con chi fai l’amore saluta e se ne va.
Ma questa è una parte vera e propria, non potremmo definirla “ear candy”. Nemmeno il colpo di nacchere velocissimo che sentiamo ogni quattro battute merita quella definizione, ma fa piuttosto parte di un arrangiamento organico in crescendo. Piuttosto, proprio al confine tra strofa e ritornello, potremmo considerare un dettaglio appiccicoso quel precipizio di “suoni laser”, per così dire, che rimanda immediatamente alla disco degli anni ‘80 (anche se Anita Ward ne faceva uso già nel 1979). Questi sono i cosiddetti synth tom, colpi percussivi con un carattere decisamente più estroso dei colpi di vero e proprio tom, che versano un goccio di surrealtà cosmica nel cocktail musicale che ci è stato presentato.
Di nuovo, non c’è bisogno di conoscere tutta la storia della musica per associare questo suono alla disco, specie ma non solo quella prodotta in Europa. E soprattutto, per capire che questo artificio musicale, per quanto buffo, mantiene viva l’attenzione. Stiamo assistendo a un gioco a “ce l’hai” di stimoli sonori, e la parte successiva tocca alla sezione ritmica: dopo la cascata di laser, la cassa dritta e il basso si dividono il grosso del lavoro. Quest’ultimo, in particolare, viene suonato da Dario Iaculli con un dettato ritmico serratissimo e una forte impronta percussiva, che ricorda lo stile funky e boogie (cioè cinetico e circolare) di Bernard Edwards degli Chic o ancora di più quello di Leon Sylvers, con un’energia convulsa che trovò casa nel funk napoletano. Per ora, però, il suo basso non vuole strafare: Stash sta cantando l’inciso melodico principale del brano, che si apre con una di quelle frasi a effetto che sembrano portare l’impronta digitale di Calcutta, coautore del brano con Stash e Davide Petrella: “mi piaci un minimo”, apice dell’understatement ironico, specie se servito in una sezione della canzone che – di norma – sarebbe fatta per le iperboli e ben altri superlativi assoluti. Ma questa prima comparsa ci aiuta a familiarizzare con la linea di basso quando avrà rilevanza centrale, nella seconda strofa: anticipare il colpo, come abbiamo detto spesso in questa rubrica, è parte della ricetta.

Ma prima di arrivare qui abbiamo il refrain vero e proprio, quello che porta il titolo del brano – è sempre buona pratica anche questa, per aiutare la memoria dell’ascoltatore. “Tu con chi fai l’amore” arriva in corrispondenza di un riempitivo di batteria definito “disco flam”. Si tratta di un’acciaccatura, cioè la successione di due colpi molto ravvicinati tra loro al punto da sembrare legati o addirittura un colpo solo, che vengono battuti sul rullante in ogni quarto, mentre sul “levare” (il tempo debole) si colpisce la gran cassa con il pedale. Il risultato è molto più chiaro e familiare della spiegazione, e basta sentire un classico della Gap Band per capire a cosa serve: per destare l’attenzione, come lo squillo di una sveglia. Tony Thompson, un altro componente degli Chic, ha inciso alcuni dei più leggendari disco flam come supporto di altri artisti, per esempio Diana Ross e Madonna. In Material Girl, ad esempio, i suoi colpi strettissimi di rullante e cassa ci convincono ad ascoltare un altro ritornello, dopo averne sentiti già due e anche un interludio (il pop della regina del pop era ancora molto prolisso, secondo gli standard attuali). Se, però, non sei familiare con questi nomi e ascolti più rock, sappi che Dave Grohl ha appreso la batteria direttamente e dichiaratamente da Thompson e dalla Gap Band, basta sentire l’attacco di Smells Like Teen Spirit per capirlo.
In questo senso, la disco è lo stadio finale e definitivo della musica fatta per attaccarsi alla memoria e non mollare mai più. Ogni musicista che opera in qualsiasi stile può imparare dalla disco come si assemblano e si costruiscono i successi – perfino Bowie volle gli Chic a suonare con lui in Let’s Dance. I Kolors l’hanno capito da qualche anno e non si pensi solo a un cinico calcolo: il funk è sempre stato nel loro DNA, l’avevamo notato già parlando di Italodisco e Un ragazzo, una ragazza; questo apprendistato ha dato loro le doti necessarie per potersi applicare alla disco senza troppi ammodernamenti. Che in un periodo di passatismi incrociati, rende il brano paradossalmente ancora più attuale. Ma non era scontato. Tu con chi fai l’amore aderisce con fedeltà ai modelli dell’epoca, nonostante la partecipazione del produttore Zef, uno dei principali fautori dell’attuale mainstream italiano. Perché è proprio secondo quelle metodologie che si muove la produzione contemporanea: una pennata di chitarra qui, un glissando in basso di violini di là, e l’orecchio non si stanca più. Con queste premesse, a malapena servirà scrivere qualcosa in più di un ritornello, e forse è questa mancanza a non dare uno slancio definitivo al brano.
E proprio quando stiamo per arrenderci al fatto che “Tutte le storie sono uguali” e forse quindi anche tutte le canzoni, ci si apre davanti il sottotesto liberatorio, liberale e libertino del brano: l’amore non deve essere per forza totalizzante (e forse pure un po’ totalitario); non deve “strappare i capelli” o fare a fette le viscere. L’amore può essere anche solo una cosa che si fa insieme, in santa libertà, in modo consensuale, senza arrogarsi alcuna proprietà sull’altra persona. Non un messaggio di stravolgente novità nell’ambito dei testi disco music, anzi. Ma in un’Italia che ancora si intrattiene discutendo del testo di Bella stronza e dove il melodramma paga sempre, perfino questa tradizione può suonare come una pericolosa avanguardia.
