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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Training Season di Dua Lipa

Dua Lipa continua a mietere passaggi radio con la sua Training Season: ecco perché questa canzone piace così tanto.
A cura di Federico Pucci
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I tempi d’oro per la musica internazionale in Italia son passati. A dir la verità, si può dire lo stesso per qualsiasi mercato musicale, al giorno d’oggi: come viene osservato da almeno un anno (qui una ricerca commissionata dalla London School of Economics del maggio scorso), la glocalizzazione ha vinto e quasi tutti ci ritroviamo piuttosto chiusi alle novità che hanno da dire gli altri, oltre confine, oltre cortina. Questa è la storia impietosa della maggioranza, raccontata dai numeri dello streaming. Pochissimi artisti riescono ad avere ancora veramente una levatura internazionale, la capacità di farsi dare retta ugualmente dal teenager di Toronto come dall’impiegato di Nairobi. Dua Lipa è uno di questi casi eccezionali, uno degli ultimi. Perfino in un panorama ultra autarchico come l’Italia, il suo ultimo singolo Training Season riesce a farsi sentire, perlomeno in quel bastione cosmopolita che è la radio, dove attualmente siede tra le 5 canzoni più passate. Merito della capacità di innovare formule stranote, di ipotizzare un cambiamento, sognare un altrove: tutte tecniche estremamente pop.

La canzone è introdotta da una chitarra attutita e filtrata sulle frequenze più alte che suona un riff: un po’ segnale orario, un po’ canzonetta che viene da una radiolina lontana, questo inciso non ci mollerà più. Il riff accompagna, certo, ma disegna anche il ritmo del brano, mentre la sua melodia è una diretta anticipazione del ritornello. Insomma, non abbiamo nemmeno fatto in tempo a schiacciare play che è arrivato il primo hook.

Qualcuno ha sentito una sorta di “profumo” orientale in questa melodia: molto più semplicemente, il brano (e questo riff in particolare) fa un uso intelligente della scala minore armonica, inserendo nell’ultimo gradino un Mi naturale che da una parte sbilancia l’orecchio dandogli qualcosa di inatteso, un accordo di Do maggiore (quella piccola novità senza la quale nessun pezzo pop riesce a funzionare fino in fondo), e dall’altra crea una tensione e una spinta in avanti ineluttabile (quella rassicurante prevedibilità, altrettanto necessaria al pop). In realtà, la risoluzione di questo magnetismo è già contenuta nella parte finale del riff, che riposa sulla tonica (la nota “casa base”): l’elastico è stato teso, sì, ma è anche stato rilasciato poco prima del climax. È come se la chitarra ci dicesse che non è più tempo di accompagnare gli ascoltatori per mano, bisogna cavarsela da soli.

Tradotto nelle relazioni interpersonali, questo è anche il messaggio del testo. La voce narrante del brano dice che non vuole più caricarsi sulle spalle il compito di educare i propri partner, che è arrivata a un punto della vita in cui l’altra persona deve imparare in fretta e cominciare presto a “giocare” sul serio. Al netto del significato specifico e personale, il messaggio potrebbe essere rivolto anche a noi: siamo pronti per una nuova stagione di una delle ultime popstar mondiali in circolazione? Anche se questo implicasse qualche minuscolo sforzo in più? Sembra di poter leggere così il messaggio di questa nuova era, costruita intorno all’album Radical Optimism (esce il 3 maggio): siamo tutti cresciuti, siamo tutti segnati da anni complessi, e dobbiamo farne tesoro per cercare nuovi modi di essere felici, avere la responsabilità del nostro stato d’animo. È senz’altro un modo più concettuale di intendere il pop. Del resto, è una strada seguita anche dagli artwork dei singoli, che a molti sono sembrati un passo indietro rispetto ai primi piani stretti, il glam e le scritte al neon della stagione di Future Nostalgia.

Di base, Dua Lipa resta un’artista dance pop. Eppure, anche dentro questo canone così commerciale, c’è spazio per stupirsi e sognare. Alla scrittura e produzione l’artista londinese è affiancata da due figure che a modo loro hanno dimostrato le possibilità trascendentali del beat da ballare: Kevin Parker, l’australiano noto con il nome del suo progetto Tame Impala e non nuovo alle collaborazioni pop (Lady Gaga, Gorillaz, Mark Ronson), che soprattutto nei due ultimi album (Currents e The Slow Rush) si è concentrato nell’infondere di una psichedelia esistenzialista la discomusic, attraverso piccoli loop trasformati in mantra e alle texture sonore; e Danny L Harle, produttore inglese già componente della provocatoria label PC Music che – come ha dimostrato lavorando con stelle del pop alternativo come Caroline Polachek – ha un particolare fiuto per le forme non tradizionali, la composizione a collage e il pastiche stilistico.

Nel suo primo minuto Training Season prova a fare un piccolo salto in avanti rispetto alle solite competenze dance-pop: è la canzone di un’artista che vuole crescere in un mondo che non ci pensa proprio, forse una discografia che la vorrebbe sempre “levitating”; ed è anche il resoconto sentimentale di una ragazza nella stessa precisa situazione. La soluzione di Dua Lipa, musicalmente e liricamente parlando? Il bastone e la carota.

Prima di tutto Dua ci dice che è il momento di affrontare le cose che non ci piacciono e crescere, elencando i dubbi sui partner incontrati finora: deve ancora andar dietro a persone belle e stolte, piacenti ma tossiche? Le strofe ci presentano questa situazione con una melodia che ora sfrega, ora asseconda le particolari vesti armoniche dei due accordi presentati in rotazione. Si tratta di due accordi aumentati, ovvero accresciuti di una nota sopra la triade principale (per chi tiene a queste cose: un Fa minore più nona, cioè con un Sol in cima; un Do maggiore più undicesima, quindi con un Fa in cima): puoi apprezzarli in particolare dopo il primo giro della strofa, quando dal minuto 0:24 entra una chitarra d’accompagnamento, che con una lunga pennata fa risuonare ogni nota.

Il bello (ma anche il problema) di accordi fatti così è la dissonanza, quel rapporto tra due o più note che il nostro orecchio è abituato a percepire come “sbagliato”. Quando, nella prima e nella terza occorrenza di questo Do aumentato, il canto di Dua si posa su un lungo Fa (“my heart to…”; “your nature…”) per qualche ragione, pure se non sappiamo una cicca di teoria armonica, avvertiamo una turbolenza: è l’incontro di due note separate da un semitono – il Mi del riff, il Fa della voce – che stridono fra loro, la dissonanza. Dua non ci sta solo presentando un dilemma esistenziale, ce lo sta facendo provare. Merito anche di un’interpretazione che sottolinea l’umanità della sua voce e che possiamo apprezzare con particolare precisione grazie alla versione “acapella” di Training Season: il timbro dell’inglese non è sommerso dal riverbero, come talvolta si fa per nascondere i difetti; semmai, viene esteso oltre il verosimile da un’eco irreale e surreale che fa l’esatto opposto, cioè srotolare la voce come una coda che raccoglie miriadi di altre dissonanze.

Dua Lipa
Dua Lipa

Un cambio di ritmo che ha qualcosa degli ABBA e qualcosa di Tame Impala ci scuote dal languore: c’è una sola condizione per entrare nelle grazie di Dua, e lei stessa sta per rivelartela con precisione e forza nel pre-ritornello. Quando il refrain arriva, tutto tace, le nubi si diradano, la voce si asciuga: Dua non è nuova a questo trick, che accentua il cambio di energia del drop – si può sentire ad esempio in Don’t Start Now – ed è miele per le nostre orecchie in cerca di chiarezza. La melodia cantata qui, sopra il solito insistente riff di chitarra, è altrettanto asciutta, quasi una versione semplificata di quell’inciso strumentale, con cui ogni attrito è svanito.

Dua, insomma, si comporta da popstar e ci porge la carota: serve uno sfogo, un’apertura da spalancare con decisione. Basta semplificare (per il momento) le caratterizzazioni armoniche e la stessa scala/modo – da minore armonica a minore naturale, Fa minore – Do minore – per eliminare ogni frizione. Anche quando le acque tornano a intorbidirsi, nella coda del ritornello, l’artista è in pieno controllo della narrazione: qui sentiamo la sua voce (campionata, mozzata, riverberata – forse opera di Harle?) usata come strumento per arricchire la base di nuove estensioni armoniche e per creare un ulteriore gancio ritmico sullo sfondo – il terzo o quarto hook a un solo minuto dall’inizio della canzone. Siamo, insomma, di nuovo in territori altamente pop.

E ce lo dimostra anche un dettaglio meno palese: la melodia dell’inciso non è un’invenzione di Dua Lipa, né del team di autori cardine di Radical Optimism (Parker, Harle, Tobias Jesso Jr e Caroline Ailin). Le note che ascoltiamo sulle parole “Need someone to hold me close…” vengono infatti da Tokyo Nights, brano del 2018 firmato da Digital Farm Animals, Shaun Frank e Dragonette – peraltro correttamente riconosciuti tra gli autori del brano. Si tratta, insomma, di un’interpolazione, il prestito di una melodia da un’altra canzone. Perché se Training Season funziona non è perché stravolge le regole del pop – come la regola per cui nessuna buona melodia si butta via. Funziona, piuttosto, perché dentro quelle regole trova spiragli di fantasia e di maturità, l’ipotesi di qualcosa di diverso e migliore, mentre continuiamo a battere il piede perché proprio non resistiamo. Che poi, è esattamente quello che Dua Lipa chiede all’amore, ora che non è più ragazzina.

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