Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Ragni di Tananai
Che io sappia, nessuno si è mai premurato di incoronare il tormentone dell’autunno. Dei tormentoni estivi sappiamo tutto: a chi si rivolgono; dove risuonano; come sono fatti e perché. Conosciamo la loro propensione ad appropriarsi di elementi musicali dell’America latina e comprendiamo la necessità di un beat insistente, dritto o meno (ma è meglio dritto); e conosciamo anche l’ormai lunga tradizione di anti-tormentoni, canzoni che volutamente ribaltano i criteri estetici e morali del tormentone estivo, decretandone per inverso la loro indiscussa egemonia culturale. Lo sappiamo, perché in queste pagine ne parliamo dalla primavera, quando hanno cominciato ad accumularsi i potenziali candidati per questo prestigioso e non ufficiale titolo (e al suo discreto ma altrettanto informale montepremi, in termini di royalties). Insomma, sappiamo come e perché l’industria musicale continui a cercare qualcosa che l’esperienza di ascolto digitale, sbriciolata a livello quasi molecolare, non può assolutamente più proporre rispetto alle vecchie monoculture sonore dell’epoca delle radio e dei juke-box. Ma perché la macchina deve fermarsi quando giriamo la pagina del calendario da agosto a settembre? E se la prima settimana di settembre iniziasse una rincorsa al tormentone autunnale, che aspetto avrebbe? E perché?
Sarebbe bello immaginare un tormentone autunnale rosso come un foliage e caldo come un maglione, ma il cambiamento climatico ci ricorda che almeno un luogo comune, quello delle mezze stagioni che non esistono più, dobbiamo darlo per buono. E allora il clima non va bene per stabilire a cosa somiglia un “tormentone autunnale”: serve un altro tipo di fenomeno ciclico, ad esempio il ritorno in ufficio. Un tormentone autunnale deve ricordarci che la vita è una successione infinita di tasse da pagare e nostalgie irrisolte, deve farci credere che le abitudini e le nevrosi non sono il risultato di un’adesione probabilmente inconscia alle regole della società capitalistica, ma una qualche connotazione più profonda della nostra anima, un (agrodolce) carattere della nostra complicata personalità. Insomma, deve dare un senso al fatto che le vacanze sono finite e non farci schifare completamente la routine nella quale siamo cascati di nuovo. Ovviamente, tutto ciò lo farà parlando d’amore, l’unico tema rimasto in vita nella canzone pop, dopo una brutta epidemia di creatività che ha colpito il settore. Tutte queste caratteristiche, a mio avviso, le presenta una canzone uscita proprio questo venerdì, nel pieno della nostra immaginaria rincorsa al “tormentone autunnale”: parlo di Ragni di Tananai.
Nell’arco narrativo dell’assurda carriera di Tananai, Ragni potrebbe essere descritta come un “ritorno”: nel brano scritto e prodotto con Simonetta, il cantautore dell’hinterland milanese sembra recuperare non tanto le atmosfere di Tango quanto l’orizzonte privato e un po’ ombelicale di canzoni un po’ precedenti, come Giugno. Di Giugno questo nuovo singolo riprende la medesima tonalità, un Re bemolle che anche questa volta viene presentato da subito con un dondolio tra l’accordo di dominante (Sol bemolle maggiore settima) e la tonica (Re bemolle, per l’appunto): questo rapporto, scritto come V-I per gli appassionati di numerali romani, è il grado zero di tutte le risoluzioni armoniche nella musica occidentale, un treno ad alta velocità che non fa fermate intermedie e non accumula ritardi, cioè qualcosa di inesistente nel mondo reale ma la cui energia trascinante e il cui fascino siamo in grado di avvertire tutti quanti. Ed ecco il primo elemento autunnale: l’inevitabilità, il moto inarrestabile che ci costringe a tornare al lavoro o a scuola, e ci riporta (metaforicamente o meno) a casa.
Nella strofa, questi accordi si alternano in un movimento che non possiamo in tutta onestà definire “progressione”: qui non si avanza, ma si gira in tondo. Già una volta abbiamo avuto modo di definire questo tipo di successione di accordi con un nome un po’ antico, cioè vamping (parlavamo, peraltro, di un prototipo di “tormentone autunnale” di assoluto valore). E così abbiamo due ulteriori caratteristiche che ben si prestano alla stagione: l’abitudine, raffigurata da questo moto circolare; e una caratteristica lievemente vintage, per ricordarci che il tempo delle cose “nuove” è finito con lo scadere delle ferie.
Gli accordi su cui basa questo vamping il nostro Tananai, poi, non sono qualunque: come già detto, sono “di settima maggiore”. Già una volta abbiamo avuto modo di parlare di questi accordi come la rappresentazione acustica della malinconia, un accordo maggiore che ne nasconde uno minore sotto il cappotto. Un accordo, peraltro, “molto indie” come osservava in un felice esemplare di musica e satira l’artista The André: “Non ci riesco ad accantonarti, al limite ad accartocciarmi. Allora ti scriverò una canzone indie con accordi di settima maggiore che hanno il suono del languore”. Questo languore – non c’è bisogno di dirlo – è l’emozione definitiva del tormentone autunnale: dentro il comfort della routine si annida la disperazione per tutte le possibilità esistenziali che vengono meno con l’accorciarsi delle giornate, costante avviso che il tempo sta finendo. L’insoddisfazione generazionale, ma anche un po’ nazional-popolare, ha fatto dell’indie (o it-pop che dir si voglia) un movimento musicale assai simbolico per i tardi anni Dieci italiani: se i cantautori avessero trovato nelle classifiche lo stesso entusiasmo riscontrato soprattutto dal vivo, forse avremmo cominciato a parlare di tormentoni autunnali già 7-8 anni fa, anche perché di accordi di settima maggiore e del loro ripieno di malinconia quelle discografie erano e sono stracariche.
Ma questo sentimento ambivalente non basta a catturare lo spirito della stagione: accordi costruiti in questo modo e progressioni altrettanto minimali sono all’ordine del giorno negli anti-tormentoni estivi. Giugno, ad esempio, per quanto pubblicata in pieno inverno sembrava fermarsi a questo livello di composizione e di intento. Ed è qui che Ragni mostra di voler dare qualcosa in più, una dose extra di tristezza e languore, che ben si adatta al triste stato della relazione che viene descritta dai versi: due persone che non si sopportano più continuano a farsi promesse e dichiarano di trovare nell’altro una specie di cura ma anche una sorgente di dolore. E quest’iniezione di amarezza arriva nella forma di un accordo preso in prestito dalla tonalità minore parallela a quella in cui ci troviamo. Il Sol bemolle minore con il quale si conclude il ritornello arriva proprio in corrispondenza di quella che vorrebbe essere la sentenza definitiva, il nucleo concettuale del brano: "Il dolore non vuol dire necessariamente sangue", canta Tananai lasciando sospeso quel movimento che appena un minuto prima sembrava così inevitabile, per far riecheggiare una volta in più nelle nostre orecchie la sua (presunta) verità.
L’espediente della sospensione viene ripetuto e anzi ricalcato sul finale del brano, quando questo salto armonico nel vuoto resta senza risoluzione, come per accentuare la mancanza di tensione propositiva: l’equivalente musicale di un “cliffhanger”, ma senza alcuna certezza che arrivi una nuova puntata o una nuova stagione a dare sfogo a questa tensione. Settembre non ha sequel, è già tanto se riusciamo a vedere un po’ di luce in fondo a questo tunnel che ci condurrà al weekend dei Morti – che peraltro non è tutta questa festa! Con questo semitono di mestizia in più possiamo dare il benvenuto all’autunno, e sono abbastanza certo che Ragni sia una canzone perfetta per crogiolarsi nella quieta disperazione della stagione. Che il 2024 sia l’anno buono per dare il via alla gara del “tormentone autunnale”, invece, è meno certo.