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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Ra ta ta di Mahmood

Una delle canzoni più amate di questa estate – anche grazie al balletto – è Ra Ta Ta di Mahmood, e proviamo a spiegarvi perché.
A cura di Federico Pucci
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Mahmood
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Nel suo celeberrimo romanzo per l’infanzia Peter Pan, J.M. Barrie scrive una frase legata al tema dell’inner child che con il tempo è divenuto un aforisma, citato alla bell’e meglio, come farò ora io: "Ogni volta che un bambino dice di non credere alle fate, da qualche parte una fata muore". Qualcuno è arrivato a parlare di un "effetto Campanellino" partendo da questa credenza fantastica: la convinzione per cui soltanto investendo la propria fiducia irrazionale nell’esistenza di una cosa, questa può effettivamente esistere. Non parleremo qui di psicologia più o meno attendibile, ma possiamo dire che questo assunto non ci è nuovo: lo si cita talvolta a proposito della democrazia; ma è anche una delle verità di fondo del pop. Il pop esiste solo se la gente ci crede. E perché il pubblico creda nel pop, deve poter accettare i suoi molteplici poteri, racchiusi in due minuti di note e parole.

Il primo potere del pop è piuttosto ovvio: la sua capacità di intrattenere, di farci ritagliare un pezzetto della nostra giornata per dedicarla all’abbandono a un’emozione. Può essere un pianto liberatorio o un’esaltazione gloriosa, può essere un velo di tristezza o il desiderio di ballare. O può essere più di una reazione emotiva, se è un pop davvero potente. Ra ta ta di Mahmood, la canzone che – avrai già inteso dal titolo – è il nostro oggetto di oggi, è un gran pezzo pop che funziona per questa ragione: se anche analizzassimo solo il suo livello testuale, vi troveremmo una fitta trama emotiva che non fatica a passare da chi canta a chi ascolta, tra la tenerezza del ricordo e la voglia di vederlo manifestarsi di nuovo davanti ai nostri occhi, l’orgoglio e la paura, l’angoscia e la liberazione.

Come i bambini che giocano alla guerra facendo “ra ta ta” con la “bocca mitraglia”, inconsapevoli della gravità delle cose del mondo, capaci solo di prenderle con la leggerezza della loro età, così noi veniamo trascinati nell’illusione che un pezzo da canticchiare e ballare in modo coordinato (magari condividendolo su TikTok) ci possa scaricare di un po’ del peso che siede sulle nostre spalle ogni giorno; un peso che si accumula (e di nuovo, si riscarica) quando ci si accorge che per alcuni bambini “ra ta ta” è un suono molto vero e attuale, tutt’altro che giocoso. Il singolo estivo di Mahmood, insomma, ci fa credere nei poteri magici del pop perché ci dà uno spazio per vivere le emozioni con il corpo e con le orecchie.

Il pop è una fata che compie incantesimi anche sulla ragione, perché quando prendiamo tra le mani le sue parole, ci illude che molteplici significati possano stratificarsi in una sola, straordinaria, sintetica espressione. Ra ta ta ti fa credere nel pop perché somma piani di lettura che possono convivere, e anzi traggono forza dall’interazione un livello sopra l’altro: a un primo grado Ra ta ta parla di un momento del passato dell’artista, descrivendone i giochi bambineschi; ma proprio per questo ci avvisa che la violenza e la criminalità usate in certi testi (rap, per esempio) sono poco più che convenzioni, uno scherzo; e infine, ci avvisa che pure tra gli scherzi da ragazzini si trovano autentici traumi, tangibili disuguaglianze, e quindi – tristemente – la premessa per cui quei giochi possano trasformarsi prima o poi in realtà. Non più armi immaginarie come le katane dei vicini di casa, visioni degne di un anime create da una fantasia fervida, ma le vere portatrici di morte, gli attrezzi di un gioco che non fa più ridere nessuno.

Qualsiasi canzone che fosse in grado di comunicare quanto appena descritto con il testo e con la musica contemporaneamente ci parrebbe avere qualche forma di potere sovrannaturale. È sempre una magia del pop in cui dobbiamo credere perché sia vera. E in Ra ta ta l’avvertiremmo pur non avendo i mezzi per descriverlo a parole, perché nell’armonia e nella melodia sono usati trucchi estremamente sapienti ed efficaci. Cominciando dal giro di accordi prevalente, quello usato nelle strofe e nel ritornello, dove il movimento è minimo eppure deciso, come il giro di un “gioco dell’oca” (ma senza la madama), immagine che descrive alla perfezione qualsiasi loop da musica pop contemporanea: in questo caso, se questo moto all’indietro e in avanti degli accordi ci evoca subito una sensazione di amarezza non è solo perché la sua unica destinazione possibile è la tonica, ma perché un orecchio a malapena attento può ritrovarci un giro simile a quello del ritornello di una delle hit pop più virali e più tristi di sempre, Somebody That I Used To Know. Ma se Gotye usava l’accordo più lontano dalla casa base per lanciare un acuto e farci sobbollire nel suo strazio, Mahmood opta per qualcosa di decisamente più dinamico.

E qui interviene la melodia. La prima parte dell’inciso, con le sue raffiche di note discendenti e poi poggiate sullo stesso tono, ci ricorda ovviamente i colpi della mitraglia: in modo molto conveniente, questo tipo di melodia è estremamente efficace, e ricopre quasi la funzione di un riff, un elemento ritmico-tonale minimo ribadito in ostinato che attiva subito le nostre sinapsi quando pensiamo a questa canzone (giustamente intitolata con la sua onomatopea-riff di base). Nella seconda metà dell’inciso (“tu li vedrai ballare, puntando al cielo le lame”), l’artista ci tira fuori da quest’illusione, offrendo contemporaneamente un momento di respiro: è qui che capiamo che, autobiografismi o no, stiamo assistendo a una finzione.

Il pop funziona quando schiude il tesoro che l’ascoltatore vi sta cercando in quel momento: se vuoi una canzone sull’innocenza dei bambini, che solo un sottilissimo strato della nostra pietà umana separa dalla tragedia quotidiana, leggendo anche fra le righe dell’outfit palestinese di Mahmood, hai tutto quello che ti serve per farlo dentro Ra ta ta (perché il pop non è solo da ascoltare, ma anche da vedere); se, invece, hai solo bisogno di una scarica ritmica a tempo moderato, con un basso greve nella strofa che ricorda i primordi della house di Chicago, un pre-ritornello agrodolce che scioglie il beat in attesa del drop (come abbiamo già descritto qui) e un ritornello da ballare a tempo, sei altrettanto in grado di farlo. Ognuno trova in una canzone pop quello che vi sta cercando: qualcuno ci trova un candidato a un tormentone estivo, più o meno di proprio gradimento; qualcun altro ci trova l’ennesimo “sad banger” (la canzone ballabile ma triste) di un canone italiano sempre più vasto; il sottoscritto ci trova un’altra dimostrazione che, tra gli artisti italiani, Mahmood fa pop a un livello superiore. Basta volerci credere.

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Federico Pucci è un giornalista musicale. Ha collaborato con ANSA dal 2012 al 2019, occupandosi di spettacoli e cultura per la sede di Milano. Tra il 2020 e il 2023 ha diretto il magazine musicale online Louder, creando e producendo oltre 200 videointerviste e format originali. Nel 2019 ha scritto un libro sui sessant'anni di storia di Carosello Records. Ogni settimana pubblica una newsletter chiamata Pucci.
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