video suggerito
video suggerito

Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Pazza di Loredana Bertè

Pazza di Loredana Berté è una delle canzoni più ascoltate in Italia: vi spieghiamo come è stata costruita e perché vale la pena ascoltarla.
A cura di Federico Pucci
248 CONDIVISIONI
Immagine

Una settimana fa si parlava della temuta fine dei ritornelli al Festival di Sanremo 2024. Eppure nella stessa kermesse abbiamo incontrato una canzone con un ritornello poderoso, di quelli con tutte le carte in regola: che raccoglie il senso e la natura del brano, con un crescendo dinamico e un acuto semplice da ripetere in coro. Questa canzone è Pazza di Loredana Bertè. Entrata ben presto nei favori degli ascoltatori, e non solo per affetto nei confronti di una figura storica, la canzone è arrivata in top 10 FIMI e in top 30 tra le rotazioni radiofoniche per ragioni intrinseche. Per come suona e per quello che significa.

Pazza è una composizione piuttosto classica per i canoni del rock e del pop: il giro di accordi del suo ritornello segue, grossomodo, il modello di Stand By Me, uno standard assoluto degli anni ‘50 e ‘60 (tanto da essere chiamata “50s progression”). Se ancora oggi questo giro ha una moderata popolarità, al di là della nostalgia, è per un ben preciso andamento emotivo che gli accordi raccontano come fossero i capitoli di una storia: prima l’accordo iniziale propone una tesi; il secondo (unico minore del giro) immerge questa tesi nel dubbio e nell’angoscia; quindi i successivi due accordi ci riaccompagnano passin passino fino alla successiva tesi, una nuova casa salda e sicura.

Il ritornello di Pazza ha un simile andamento: prima ci propone la sua visione delle cose (“io sono pazza di me”); quindi ci presenta un momento di incertezza e dubbio, che porta sulle spalle tutto il carico empatico dell’inciso. Eppure, la voce appare tutt’altro che rassegnata: “voglio gridarlo ancoooora” è una frase che da una parte ci lascia immaginare la solitudine di una persona costretta a gridare per farsi sentire; dall’altra, suona come una fiera rivendicazione di forza. Lo capiamo anche dal fatto che qui la melodia, per la prima volta nel brano, si presenta armonizzata: Bertè, insomma, sta gridando accompagnata da qualcuno o qualcosa che le dà manforte. Due o più voci sono armonizzate quando ciascuna intona note diverse, ma separate fra loro da precisi intervalli che creano una piacevole somma di frequenze: in questo caso, le due note di “ancora” (Sol-Fa) sono ribattute una terza minore più in basso (Mi-Re). Questo tipo di arrangiamento delle melodie, non esattamente tra i più popolari al momento, era comunissimo – di nuovo – negli anni ‘50 e ‘60, quando limitazioni tecnologiche delle produzioni lasciavano spazi “vuoti” da riempire con il più semplice e disponibile degli strumenti: la voce. Basta pensare a una qualsiasi canzone dei Beatles: senza armonie vocali non sarebbero le stesse.

Che l’armonia sia ribadita da una base strumentale o da una seconda traccia vocale sovrapposta alla prima, non saprei dirlo: ma sicuramente Pazza approfitta di questi momenti critici e inquieti (anche dopo, ancora più drammaticamente, su “mi sono odiata abbastanza”) per farci percepire un senso di coralità sottintesa. Perfino quando canta “faccio da sola” Loredana Bertè, tecnicamente, non sta cantando da sola – ironia della sorte. È come se con lei ci fossero tutte Loredane del passato, che convivono in ogni nota. E non è solo l’armonia vocale a farci immaginare questi scenari: considera anche l’accostamento tra passato e presente, tra espedienti melodici vintage e produzioni moderne (fai caso ai bassi: distorti quasi industrial nell’intro; pulsanti e trance nell’ultimo ritornello). Certo, anche senza queste interpretazioni, si potrebbe semplicemente dire che i clash sonori e gli arrangiamenti vocali semplicemente “funzionano”!

E dopotutto Pazza ci tiene a filare dritta come un treno, non ha tempo da perdere per convincerti della sua forza – d’un tratto non so se sto parlando del brano o di chi lo canta, altro buon segno per qualsiasi aspirante tormentone. Fai caso al centro del refrain, dove in barba alla normale 50s progression troviamo tre accordi concatenati, tre inevitabili gradini di un climax melodico e dinamico oltre che armonico: al posto del prevedibile passaggio Si bemolle – Do7 – Fa, infatti, gli autori (oltre a Bertè, Luca Chiaravalli, Andrea Pugliese e Andrea Bonomo) inseriscono un Sol prima del Do, un trampolino di quinta in quinta in quinta che ci porta all’accordo di partenza con una serie di salti. Così, abbiamo accumulato l’energia necessaria per spingere un altro giro di giostra, e avere la forza cinetica sufficiente per assorbire le parole di questa seconda metà del chorus. Ci servirà, per apprezzare la semplice complessità del suo discorso etico e semantico. (E anticiperà la cadenza finale, che inaspettatamente taglierà del tutto il Do7).

Liricamente parlando, Pazza si nutre dell’ambiguità di questo termine così poco raccomandato oggi, in tempi (giustamente) così sensibili alle tematiche della salute mentale. La “pazzia”, però, è veramente il fulcro della canzone: addirittura si fa sentire anche in absentia nei primi due versi della prima strofa, dove rima con “ragazza” e “s’incazza” pur non essendosi ancora fatta sentire. La “pazzia” però non significa una cosa sola: è l’innamoramento (“pazza di me”), ma anche l’instabilità psicologica (“prima ti dicono basta sei pazza”). Ma pur distinguendo i due valori, e dedicando a ciascuno di essi una metà di refrain, la voce narrante fa una cosciente fusione, per riappropriarsi dell’insulto e trasformare la connotazione denigratoria in attributo positivo: se ho imparato a volermi bene e addirittura essere “pazza di me” – sembra dirci Bertè –  allora chi userà contro di me quella parola come fosse un insulto si vedrà completamente depotenziato.

La prima metà del refrain insiste sul primo significato: Bertè si dichiara pazza di sé stessa e afferma di non aver bisogno di nessun altro. Questo tema dell’autoinnamoramento non è nuovo nella canzone pop. In un’epoca come la nostra, dove siamo facilmente esposti al giudizio altrui, dove quasi ogni comunicazione digitale è uno spettacolo da valutare con stelline e cuoricini, questo argomento risulta particolarmente rilevante: dopotutto, la canzone più ascoltata al mondo nel 2023, Flowers di Miley Cyrus, parla esattamente di questo. E per quanto il vittimismo e il narcisismo possano inquinare la potenza di questo topos pop, non si può negare l’universalità di un sentimento che sa di liberazione e di rivalsa. Anche Mia Martini lo cantò, nel lontano 1977, sopra un beat disco-music: Innamorata di me (scritta e composta da Maurizio Fabrizio e Bruno Lauzi) era un inno alla libertà, anche sessuale, che partiva dall’indipendenza sentimentale per definire un’autonomia più generale. 

Non possiamo dire con certezza se Loredana abbia preso le mosse da questo brano della sorella. Però possiamo apprezzare il suo ribaltamento duplice della prospettiva e la riappropriazione della “pazzia”. L’opinione degli altri, che prima ti danno della pazza e poi della santa, non conta veramente, perché è volubile, ipocrita: non possono essere loro a definirmi pazza – canta tra le righe Bertè – solo io io posso farlo. E può farlo proprio perché è consapevole dei suoi limiti e difetti, e ciononostante è pazza di sé. Che questo messaggio, così facilmente sovrapponibile alle vite di ciascuno di noi, arrivi alle nostre orecchie con un ritornello che potrebbe ripetere anche una campana, interpretato (e arrangiato vocalmente) con così tanta energia da risultare naturalmente contagioso, è una legittima e gradita coincidenza.

248 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views