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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Paprika di Ghali

Si chiama Paprika il nuovo singolo di Ghali e qui vi spieghiamo perché è importante per la sua carriera e perché ce la ritroveremo a cantare nelle prossime settimane.
A cura di Federico Pucci
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Ghali
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Chi segue la musica pop contemporanea sa che gli artisti non sono semplici creatori ed esecutori di canzoni. Ogni artista che si rispetti è un marchio (non necessariamente, ma anche commerciale). O, per dirla diversamente, ogni artista è il centro gravitazionale di un sistema planetario di significati e opere che non si esauriscono necessariamente su Spotify o su YouTube. I contenuti per i canali social creati dall’artista e del suo entourage; quelli creati dai fan (meme, montaggi, grafiche, fan art); i testi e la loro esegesi (sempre più granulare e stratificata grazie a siti come Genius) e le teorie che ne conseguono; le eventuali amicizie o inimicizie dentro il music business; il look, le ospitate TV, il glamour. Il catalogo di un artista è tutto questo, un epos multimediale di informazioni e contributi che – se l’artista in questione lavora saggiamente – confluiscono in un unico feed, o in una specie di “metaverso”. Si potrebbe obiettare che è sempre andata così, ma quel che un tempo era un’opzione per pochi, adesso è quasi un obbligo, ammesso che si aspiri a gestire la “narrazione” della propria notorietà.

Certo, senza canzoni questa notorietà non arriva, e Ghali se l’è costruita così, singolo dopo singolo, prima di tutto per ragioni musicali e poi di costume. Paprika, uscita venerdì 10 maggio, parte con queste stesse premesse. Se, com’è quasi certo, nei prossimi tre-quattro mesi farà il giro d’Italia qualche milione di volte, sarà prima di tutto per la sua combinazione interessante e ben congegnata di suoni e ritmo. Le prime cose che sentiamo sono un beat sincopato (quello che si chiama clave: tum-tum-tum ta-tà) e una chitarra brillante: sono due degli elementi di base dell’afro-pop, o afrobeats, corrente musicale emersa negli anni Zero in Africa occidentale (Nigeria in particolare), da non confondere con il quasi omonimo afrobeat di Fela Kuti e Tony Allen.

Dentro l’afrobeats si condensa una storia di influenze transatlantiche che hanno seguito la tragica rotta delle diaspore africane: ci senti qualcosa del calypso, per esempio, perché il calypso è arrivato in Trinidad e Tobago dalle genti dell’Africa occidentale portate a forza dai francesi, come gli Ibibio dell’attuale Nigeria. Insomma, nelle sue diverse iterazioni, perfezionate da artisti come Wizkid e Davido, l’afrobeats ha sempre fatto tesoro di un’aria di familiarità e di profonda novità, che ha permesso ai suoi esponenti di incorporare ulteriori generi, passando e proponendosi ai vari mercati globali – parte del suo appeal cosmopolita sta proprio in questo carattere multiforme eppure identitario.

La produzione afrocentrica di Takagi & Ketra affonda i piedi senz’altro nel lavoro di un team internazionale di autori: con gli italiani Jacopo Ettorre, Luca Faraone e Digital Astro, hanno lavorato anche il nigeriano Daramola e il portoricano J Castle, figure importanti per le scene afro-pop e latin-pop. Forse per scelta, forse per puro caso questi talenti della scrittura hanno lavorato con materiali di partenza già noti al pubblico dell’artista: il primo subliminale ingresso nel metaverso di Ghali sta qui. Infatti, gli ingredienti di base con i quali questi cuochi hanno cucinato l’attuale singolo sono parecchio simili a quelli di Casa mia: stessa tonalità, stessi accordi tranne – ed è essenziale – un Mi maggiore (settima) al posto di un Mi minore, una solo semitono di distanza.

Questa differenza è piccola ma importante. Qui sta il sapore, la spezia se vogliamo, della nuova pietanza. D’altronde, nella cucina (e nel songwriting) i dettagli possono cambiare completamente una ricetta: un risotto alla milanese e una paella valenciana contengono entrambe riso, brodo e zafferano; ma se questi ingredienti sono cotti in un altro ordine, con altre temperature e altri tempi, e l’aggiunta di un pizzico di qualcosa in più (la paprika, guarda caso), il risultato finale è ben diverso. (Sì, ci sono molte altre differenze fra questi due piatti, passatemi l’analogia).

Quando avevamo parlato di Casa mia, si era sottolineata la lontana somiglianza di quel brano con Smooth Criminal di Michael Jackson: in questo caso la somiglianza è ancora più vicina, proprio per via di questo ingrediente in più, un singolo Sol diesis che cambia la scala (minore armonica) e illumina ulteriormente la progressione. Con il giusto tempo e questo elemento di spinta armonica, un giro di accordi che altrimenti può suonare teso e rabbuiato (in Ordinary Day di Dolores O’Riordan), acquista un carattere ben più cinetico e brillante: per esempio nel ritornello di Somebody Told Me dei Killers. Altri, come XXXTENTACION in Revenge, hanno approfittato del piacevole intreccio chitarristico offerto da una simile serie per dare un brio inatteso a una canzone dal tema tutt’altro che sereno. E se c’è una cosa di assolutamente universale nel pop (e rap) attuale è proprio l’ambiguità, l’incapacità di dire con certezza se chi canta sta esprimendo gioia o dolore.

Vale anche per Paprika, che quindi approfitta di queste tensioni interne che già avevano funzionato nel successo sanremese di qualche mese fa, e che fanno parte della composizione chimica prevalente del pop odierno. Non possiamo dire se l’orecchio dell’ascoltatore medio riuscirà a riconoscere il legame armonico profondo tra gli ultimi due singoli. Ma il metaverso non finisce certo qui: il testo di Paprika, infatti, è cosparso di riferimenti e allusioni ad antefatti che ne accrescono il significato, rimandi interni che tengono occupato l’ascoltatore mentre si chiede se per caso ha già sentito o meno questa canzone. In parte, è semplicemente l’ABC dell’hip-hop, dove doppi sensi e autocitazioni sono apprezzati. In parte è, appunto, creazione della mitologia interna, prerequisito dell’ultima era pop.

Ad esempio, la prima parola del brano, “habibi”, è sì un’espressione araba comunissima (“amore mio”, “cara”), perfettamente in tono con il tema amoroso di Paprika; ma è anche titolo di uno dei primi grandi successi mainstream di Ghali, nel 2017. E poi ci sono gli “occhi rossi”: poco importa se causati dal fumo, o da una cipolla tagliata, o dalla tristezza poco importa, in ogni caso sono parte del lessico di Ghali (in Sempre Me e Oggi No). O ancora, il nome Italia da dare alla figlia: una parola con connotazioni civili e culturali non casuali parlando di Ghali, per l’impegno al fianco delle seconde generazioni come lui; e un uso che non può non ricordare la prosopopea (quando ci si rivolge a un concetto come fosse una persona) usata nella canzone del 2018 Cara Italia. In una traccia come Paprika, che sancisce il ritrovato amore tra l’artista e il pubblico italiano, la conferma di una nuova fase della carriera del milanese (“ci prenderemo tutto ancora una volta”, scriveva su Instagram pochi giorni fa), un testo fitto di riferimenti alle tappe della propria storia potrebbe non essere così fuori luogo: è il racconto che importa.

E poi ci sono i rimandi esterni, quei segnali del mondo reale che ci avvisano su quale punto del racconto/carriera di Ghali è quello in cui ci ritroviamo. In questo caso, vediamo citata la situazione che l’aveva visto coinvolto durante il Festival, quando i suoi appelli per la fine dei bombardamenti di Gaza avevano fatto arrivare una dolorisissima attualità sul palco dell’Ariston, e le conseguenti reazioni scomposte di parte della politica e del Servizio Pubblico televisivo (“Puoi dirmi quello che vuoi, non farò come la Rai”). Peraltro, Ghali ha recentemente ribadito questo appello per la Palestina con un minuto di silenzio in piazza Duomo a Milano, durante il concerto Radio Italia Live.

Tutte queste nozioni accessorie, probabilmente ininfluenti per il pubblico casuale, fanno parte dell’esperienza condivisa delle canzoni di Ghali: insomma, è tutta musica, lo è sempre stata ma ora ancora di più. Solo dragando versi, suoni, post, messaggi, immagini a caccia di una trama comune di valori artistici (e umani) possiamo scoprire fino in fondo il personaggio e la persona, la sua pretesa di entrare nelle nostre vite tramite le orecchie. E quindi, comprendere quella combinazione di familiarità e novità che trasforma una canzone in un successo, un artista in una star. Per tutti gli altri ascoltatori, disinteressati alla mitologia e ai metaversi, bastano un suono accattivante, adatto al proprio stato d’animo e va benissimo così: per loro Paprika funzionerà comunque.

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