Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Ora che non ho più te di Cesare Cremonini
Se ogni giorno escono migliaia di nuove canzoni, chi le ascolta? In questa rubrica ci chiediamo come mai certe canzoni abbiano successo rispetto alle migliaia e migliaia che, invece, non saranno mai “hit”. Ma dovremmo chiederci anche come mai queste “hit” sembrano avere una vita sempre più lunga. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma le canzoni che finiscono in classifica sono più longeve oggi di quanto non lo fossero 10 o 20 anni fa. Capita di frequente con i brani in gara al Festival di Sanremo, o con le “hit estive” che ormai durano da aprile a ottobre, e potrebbe ascriversi a semplice conformismo, o alle abitudini di ascolto distratto o da playlist. Ma vale anche per canzoni che, pur nella loro natura profondamente pop, stimolano un ascolto per nulla passivo, eppure durano per mesi. Come Ora che non ho più te di Cesare Cremonini.
Primo estratto dal disco Alaska Baby, pubblicato venerdì scorso, il brano si è insediato negli ascolti del pubblico italiano a settembre e non ha alcuna intenzione di schiodarsi: la radio lo passa con entusiasmo (sei settimane di fila al primo posto della classifica Earone); su Spotify è primo nell’ambita “Top 50 Italia”; su YouTube il videoclip ha superato 11 milioni di visualizzazioni. E proprio questa settimana il singolo (in tandem con l’album) è arrivato al primo posto della FIMI, lasciandoci immaginare che il tour negli stadi dell’estate 2025 gli riserverà un posto speciale.
Come mai? Cosa lo fa funzionare così bene? In una frase: la magistrale gestione delle aspettative. Prima di tutto, perché c’è stata un’attesa vera e propria. A settembre la canzone aveva interrotto una pausa di due anni del cantautore bolognese, e tornare – l’abbiamo detto – è un atto importante. Ora che non ho più te contiene molti degli espedienti che in questa rubrica sono stati descritti in lungo e in largo: un beat solido; una dinamica che fa spiccare il ritornello aumentandone il volume ma anche la densità; un hook talmente spiattellato da essere nel titolo. Ma, a mio parere, ci sono almeno tre punti di forza che somministrano all’ascoltatore un ciclo di tensione, sospensione, appagamento molto soddisfacente.
Il primo fulcro di questa leva sta nel giro di accordi del ritornello: per chi presta attenzione a queste cose, dall’accordo di primo grado si passa al terzo (minore) quindi al sesto (sempre minore) e “si risolve” sul quarto grado, chiudendo l’anello con una tensione moderata e tanto languore. Conclusa da una cadenza (cosiddetta “plagale”) efficace ma non troppo, la progressione di Ora che non ho più te avanza con passo incerto: la direzione è chiara, ma dentro il “pazzo in autostrada” che va “a duecento all’ora” ci sono più dubbi che certezze. Un giro di questo genere l’abbiamo sentito non di rado, e in canzoni che ugualmente comunicano una mancanza, una potenzialità mai completamente espressa, un’affermazione che suona più come una domanda.
L’hai sentito in Cruel Summer di Taylor Swift ma anche in L’amour toujours di Gigi D'Agostino, per farti capire la sua versatilità stilistica. Se volessimo descrivere l’arco emotivo di questa sequenza potremmo immaginare l’esperienza di uscire in un giorno di pioggia senza ombrello, o il desiderio di andare al mare anche se il tempo non è bello: uso queste immagini non a caso, perché un giro di accordi simile si sente in È sempre bello di Coez. Curiosamente, le canzoni di Cremonini e Coez condividono anche un espediente di arrangiamento: una chitarra ricolma di riverbero che sottolinea l’armonia inserendosi negli spazi vuoti del beat, in una specie di contrappunto tra voce e strumentale. Ma – come abbiamo detto – questo non deve indurre i più pigri a parlare di plagio. Le canzoni sono molto diverse, e lo testimonia il resto della produzione firmata da Cremonini con Alessandro De Crescenzo e Alessio “Not Waving” Natalizia. Ma, se uno non prestasse attenzione ai dettagli del suono, potrebbe comunque badare alla melodia.
Il secondo punto di forza di Ora che non ho più te, infatti, è nella tensione creata dalla voce di Cremonini dentro la seconda battuta del ritornello. La chitarra riverberata di cui sopra suona un La: è la nota di base (la tonica, diciamo per i secchioni) dell’accordo minore che governa questo quartiere del refrain. Proprio qua, all’inizio della battuta, il cantautore bolognese fa cadere l’accento su un Si bemolle – lo senti in corrispondenza della seconda sillaba della parola “illu-u-umina”. Le due note menzionate (La e Si bemolle) sono separate da un solo semitono, cioè – se proviamo a visualizzarle sulla tastiera di un pianoforte o di una chitarra – sono “una di seguito all’altra”. Questo spazio minimo è quel che si definisce un intervallo di seconda minore, e non c’è bisogno di una laurea al conservatorio per sentire che, suonate insieme, le due note generano una dissonanza: la base e l’inciso, potremmo dire, “grattano” l’una contro l’altro.
Anche se non ce ne rendiamo conto, l’orecchio desidera una risoluzione di questa tensione: dove andrà a finire questo lungo “u-u-u”, che si stiracchia lungo la battuta quasi in sincrono con l’oscillazione del riverbero della chitarra? Una mezza soddisfazione arriva mentre la parola “illumina” finisce di srotolarsi e atterra su un’altra nota. Ma anche qui c’è un’altra tensione, stavolta tra la cosiddetta settima diminuita (un Sol) e il solito La, che insieme ci danno un accordo di La settima minore. Termini tecnici a parte, la melodia ci sta comunicando una cosa piuttosto evidente al netto della teoria: che da uno stato di sospensione e irrisolutezza stiamo passando a un altro stato di sospensione, solo leggermente meno irrisolto.
Messo alla prova in questa maniera, l’orecchio accoglierà come una boccata d’aria fresca la seconda metà del ritornello, dove tutta la pazienza bruciata in precedenza viene finalmente ripagata. Scrivere melodie dissonanti non è una pratica incredibilmente comune nel pop, ma chi lo fa con cura e intelligenza viene premiato. Letteralmente. Prendiamo l’esempio di una canzone dissonante come What Was I Made For? di Billie Eilish, che ha portato a casa un Oscar e due Grammy. La domanda esistenziale che Barbie si pone per bocca della popstar californiana e l’amarezza di Cremonini di fronte alla prospettiva di un ultimo ballo con la persona amata rispecchiano stati d’animo che non possono essere banalizzati come una generica malinconia: c’è una pace che circonda il dolore, una rassegnazione che promette consapevolezza, e se vogliamo sentirlo in modo viscerale dobbiamo metterci alla prova, anche solo per qualche secondo, accettando la natura transitoria dello sconforto con la promessa di una quiete.
Non dobbiamo andare lontano per trovare quello che credo sia il terzo fulcro di questa leva musicale: il modo indicativo (forse) sbagliato nel verbo “illumina”. Cremonini non è nuovo alle soluzioni che sacrificano la grammatica per venire incontro alla metrica: basta ricordare “prima che tu te ne vai” al posto di “vada” nel bridge di Un giorno migliore. In questo caso, però, l’errore sta nell’orecchio di chi ascolta. Possiamo assegnare un modo verbale alla subordinata “così che il cielo si illumina” a seconda del ruolo svolto dal soggetto (“tu”) nel ritornello: è attivo, e quindi i verbi “spegni” e “balliamo” sono azioni fissate nella realtà della narrazione, cioè al modo indicativo? Oppure sta solo ascoltando, e quindi “spegni” e “balliamo” sono rispettivamente un imperativo e un congiuntivo esortativo enunciati dal cantante?
Potremmo chiedere un chiarimento a Cremonini, o a Davide Petrella che ha firmato con lui il brano. Ma poi perderemmo il dubbio, che è anch’esso una forma di sospensione. Meglio lasciare a ciascun ascoltatore il compito di farsi un’opinione e interpretare il passaggio come meglio crede. Una canzone pop non deve per forza servire al pubblico la pappa pronta, magari anche pre-masticata e digerita: anche dentro i confini dell’usuale può accadere qualcosa di insolito, imprevedibile, scomodo, che invita a esercitare il muscolo dell’ascolto. E nonostante le sue stranezze, o proprio grazie a loro, una canzone può spiccare dal rumore di fondo e durare a lungo.