Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Oh Mamma Mia di Guè e Rose Villain
Per quanto sia talmente abituato al numero 1 da aver promesso di ritirarsi dopo 20 album al primo posto, Guè sa benissimo che quella posizione tanto ambita – di recente occupata nella FIMI dal suo singolo Oh Mamma Mia featuring Rose Villain e dall’album che lo contiene – non è mai scontata. E, a dirla tutta, non è nemmeno così importante per scrivere la storia. Una dimostrazione di ciò si può trovare proprio nella sua hit. O meglio, dietro la sua hit: nel suo testo, nel suo sound e perfino nel suo video. Ed è una storia che parte da un grosso macigno di plastica e semiconduttori.
La storia della musica è anche una storia tecnologica: ogni innovazione ha prodotto cambiamenti importanti nella pratica di chi scrive canzoni e nel gusto di chi le ascolta. Dai violini inventati a Cremona alla metà del Cinquecento al software Auto-tune messo in vendita nel 1997, i pionieri hanno introdotto nuovi suoni, ma talvolta sono stati i perfezionatori ad avere un impatto decisivo. Come Antonio Stradivari nel caso del violino. O Roger Linn, padre della drum machine Linn-Drum e poi, con l’azienda giapponese Akai, del campionatore (sampler) digitale MPC nella seconda metà degli anni ‘80. Ma prima, una veloce introduzione.
Detto in modo molto semplice, un campionatore (o sampler) è uno strumento che estrae da una registrazione un campione di suono (o sample), cioè un frammento che colui che sta campionando vuole utilizzare per altri scopi. Per esempio, un sample si sente molto chiaramente in Oh Mamma Mia, ed è – per l’appunto – “oh mamma mia” da Che soddisfazione di Pino Daniele: il più classico dei campionamenti, in cui una molecola musicale di una canzone viene ricontestualizzata e trasformata in hook (gancio) per catturare l’attenzione di chi ascolta, o per la naturale musicalità di Daniele, o attivando la memoria di chi ricorda il brano originale del 1991. Questo, in breve, è come si campiona e perché lo si fa. Eppure, non siamo ancora arrivati alla spiegazione del perché e come questa canzone si aggrappa al nostro cervello e non lo molla più.
L’MPC non è stato il primo campionatore: per certi versi, anche il Mellotron usato – per esempio – da John Lennon in Strawberry Fields Forever era un campionatore, benché analogico, in questo caso, perché ogni tasto riproduceva un nastro contenente la nota ricercata di un dato strumento. Neppure i campionatori digitali erano proprio una novità. Ciononostante, la serie MPC, iniziata nel 1988 con l’MPC-60, è considerata da molti un punto di svolta epocale, anche e soprattutto per la facilità d’uso grazie alla griglia 4×4 di pulsanti di gomma con i quali si potevano suonare i segmenti campionati: una democratizzazione, si direbbe. Ma non serve che spieghi a parole la praticità dell’MPC: se anche tu sei una delle moltissime persone che hanno visto quasi due milioni di volte il video di Oh Mamma Mia di Guè e Rose Villain, hai osservato già tutto quello che ho descritto nei primi secondi. La terza ripresa, subito dopo un dettaglio della chitarra acustica, è infatti dedicata a un MPC-2000, un sampler digitale parente stretto di quello che a fine anni ‘80 contribuì a stravolgere la musica popolare. E questo dettaglio visivo non è così secondario per comprendere come mai questa canzone non si stacca più di dosso.
“La-di-da-di, we like to party”, sono le prime parole della prima strofa di Guè. Ma anche le prime parole della strofa di Rose Villain, meno di un minuto dopo. E non passa nemmeno un altro minuto, e questo refrain torna dentro uno special che, a conti fatti, non ha molto altro da dire a parte: “La-di-da-di, we like to party”. Non sono parole a casaccio, come potresti aver intuito: si tratta, forse, delle parole che più di tutte sono passate di microfono in microfono nella storia del rap. E tutto parte… nell’agosto del 1985 con la traccia La-Di-Da-Di del “beatbox umano” Doug E. Fresh con Slick Rick (all’epoca MC Ricky D), diranno i nostri piccoli lettori preparati in storia dell’hip-hop. In realtà tutto parte alla metà del 1800 in Inghilterra, con l’espressione “lardy-dardy” (forse da lord/laird, cioè “signore”), usata come motteggio rivolto alle persone affettate e pretenziose. Per capire meglio, immagina il modo in cui in italiano diciamo “uh la la”, a imitazione del francese, per indicare un lusso fuori luogo.
Cosa ci fa un modo di dire dandy nello slang degli anni ‘80 è presto detto: lo sfoggio di lusso è importante e ingranato nella cultura hip-hop, e di conseguenza si rendono necessarie anche espressioni che aiutino a sdrammatizzare quello stesso lusso, magari lanciando qualche scherzoso insulto. Questa componente grottesca e satirica ha sempre fatto parte della culture: in fondo, dovremmo prendere sul serio lo stesso Guè che, ampiamente superati i 40 anni, si comporta come un ragazzino che fa il segno del cuore con le dita sotto il balcone di Rose Villain? Certo che no, è tutto un gioco. Anzi, una festa. E a noi piace far festa, la-di-da-di.
Il primo a usare “la di da di” non fu Slick Rick (o MC Ricky D), ma Kurtis Blow un anno prima, in 8 Million Stories, ma questo poco importa, perché fu Rick a completare il verso con “we like to party”. Trasportate dall’energia contagiosa dell’MC, che ti convince davvero che abbia voglia di festeggiare e ti fa venir voglia di partecipare, queste semplici cinque parole hanno attraversato la storia del rap e non solo, atterrando al primo posto della FIMI. In mezzo, sono state ripetute da Snoop Dogg e da Miley Cyrus, dai Roots e dalle Salt-n-Pepa, fino a Ensi dentro una traccia di Nerone di qualche anno fa. Perché chiunque si sia misurato con la storia cinquantennale del rap, prima o poi ha provato a inserirsi dentro questa tradizione: questo è il senso del sampling, secondo quanto sostenuto in un famoso TED Talk di qualche anno fa dal produttore Mark Ronson (responsabile di We Can’t Stop di Miley).
E La-Di-Da-Di di Doug e Rick è considerata la traccia rap più campionata di sempre: non la traccia più campionata nel rap, ma proprio il pezzo di un rapper che ne ha generati di più a sua volta. Questo perché in quel bizzarro b-side dell’85 si trova una miniera di piccoli momenti vocali curiosi e divertenti, resi ancora più sorprendenti dalla pura e semplice fattura dell’interpretazione di Rick: scioglilingua come “when we rock up on the mic we rock the mic right” (che i fan di Robbie Williams forse riconoscono), claim come “hit it!” che è stato usato e riusato talmente tante volte da essere diventato semplicemente parte del lessico. Il database WhoSampled conta oltre 1000 casi di interpolazione (cioè, citazione) e campionamento (sampling) di questa canzone.
A tutti questi illustri predecessori aggiungiamo anche Guè. Il quale, nella sua traccia, si comporta proprio come un musicista di fronte al banco sample del suo Akai. Un pulsante manda il sample di Pino Daniele che stimola il pubblico napoletano (solleticato nel video dalla partecipazione di Gigi D’Alessio e Geolier, i tre G). Di qua l’interpolazione di La-Di-Da-Di triggera i nerd del rap, e ci siamo. Quindi un pulsante manda nell’aria le due rime base, -arni e -illa, che i due protagonisti si scambiano nelle rispettive strofe come due poeti stilnovisti, aiutando il nostro scarso attention span con un numero contenuto di informazioni verbali. Quest’altro tasto contiene l’inciso del chorus, schiacciamolo e parte un botta e risposta costruito su poche note ripetute (garanzia di memorabilità), e così l’orecchio melodico è contento. Un pulsante particolarmente consunto dall’uso è quello del messaggio “abbiamo voglia di far festa”: sullo spirito italiano, un popolo che stapperebbe bottiglie anche nelle viscere del Titanic pur di non pensare un secondo ai suoi problemi, questo trigger è fortissimo. Infine, il tasto in fondo contiene l’ultimo “mamma mia, mamma mia” a chiusura del ritornello, un rimando al sample di partenza, per soddisfare il bisogno di coerenza strutturale che l’orecchio cerca in modo innato, ma anche un’espressione talmente nazionalpopolare da essere quasi parodia di sé stessa, degna dello pseudo-italiano parlato da Mario e Luigi nei giochi Nintendo. Come un DJ che schiaccia all’impazzata la gomma grigia dell’Akai estraendone un beat, così Guè combina gli asset imprenditoriali che fanno di una canzone un prodotto di successo: e il mercato obbedisce, e ascolta in loop. Ma la cosa davvero speciale è che forse – come abbiamo notato altre volte nei tormentoni – la canzone è consapevole di tutto ciò.
Cosa vuol dire? Una canzone ha una coscienza? No, ma chi la scrive sì. Nella loro versione maccheronica di Crazy In Love (e il beat sincopato della cassa di Sixpm e Chef P ha effettivamente qualcosa di quel vecchio pezzo) Guè e Rose Villain sembrano dirci in modo nemmeno tanto subliminale che il loro obiettivo primario è intarlarsi nella tua memoria. Quando Rose si insinua nella rima -arni/-armi con la filastrocca “eeny, meeny, miny, moe”, infatti, sta citando il modo in cui gli anglofoni fanno la conta (la versione inglese di “ambarabà ciccì coccò”): un modo per contare i soldi, o magari gli amanti in questa in questo teatro che chiamiamo rap? O forse l’evocazione del dispositivo mnemonico per eccellenza? Cioè, una dichiarazione d’intenti: questa canzone, che ci farà contare soldi a profusione, la ripeterai con la facilità dell’ambarabà ciccì coccò. È solo una teoria. Magari, invece, è la memoria di Rose a essersi triggerata inconsapevolmente mentre scriveva. Nella sua strofa, infatti, la neo-imprenditrice di beauty Rosa Luini (la cosa più vicina a Rihanna che possiamo chiedere in Italia) cita un club di New York, il 1 OAK. Come disse in un’intervista a Esse Magazine riguardo un verso della canzone Gotham, almeno una decina di anni fa in quel locale Rose incontrò Miley Cyrus “nel suo periodo wild”. Beh, quel “periodo wild” è esattamente lo stesso immortalato dalla canzone We Can’t Stop, il cui ritornello inizia con le fatidiche parole: “la-da-di-da-di, we like to party”. Perché potranno pur indossare marchi firmati e comportarsi in modo non appropriato per la loro età, ma i rapper sono proprio come noi: vittime di strani scherzi della memoria. Solo che con questi scherzi loro, a differenza di noi comuni mortali, riescono a fatturare.