Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Nonostante tutto di Cesare Cremonini ed Elisa

Da quando le intelligenze artificiali ricombinano senza originalità il passato, e le banalità umane ripescano senza fantasia i vecchi successi in un fioccare di campionamenti pigri, parlare di recuperi e revival è diventato molto più problematico. Non aiuta il fatto che internet abbia accartocciato il tempo, e i vecchi cicli ventennali e trentennali delle mode siano saltati per aria. Oggi i revival non sono più un trend, ma un buffet di gioiose alienazioni dal presente che non sembrano condurre il pubblico da nessuna parte, tra chi rifà il glam rock e chi crede di vivere ancora nell’età dell’oro del gangsta rap, ciascuno in fondo perso dentro ai fatti suoi.
Ma esiste un modo per estrarre un valore collettivo dalla miniera che è il passato senza cascare nella nostalgia. Chi vi arriva ottiene in realtà qualcosa che non ha nulla di passatista, ma anzi sembra quasi futuristico: la promessa di un “altro” pop, del quale si sente un disperato bisogno. Un esempio di ciò è la nuova canzone di Cesare Cremonini ed Elisa, Nonostante tutto.
Ci sarebbe molto materiale vintage da segnalare dentro il brano, scritto da Cremonini e Toffoli e co-prodotto dai due insieme con Alessio Natalizia, altrimenti noto come Not Waving, musicista e produttore già responsabile della cura di tre tracce (fra cui Ora che non ho più
te) dell’album Alaska Baby, a cui questo nuovo brano si allega naturalmente. Nel disco, peraltro, era già presente una collaborazione tra le due popstar italiane. Ma se Aurore boreali cresceva lentamente da un prologo ambient a una cassa dritta, Nonostante tutto non lascia spazio agli indugi e mette subito le carte in tavola. Anche quelle dei riferimenti stilistici.
Il primo verso del brano arriva ex abrupto con i suoi colpi attutiti di tastiera alle spalle, solidi ma impastati alle note di basso, massicci e luminosi ma ancora filtrati per lasciare emergere la voce di Cesare Cremonini: “Lo sai che a volte la felicità ha il sapore del mare”, sentiamo
mentre quattro note che dovrebbero introdurci il brano (la sua tonalità, il suo mood) sembrano più interessate a insegnarci il tempo. Ma è un tempo non del tutto chiaro. Questo hook iniziale, così elusivo eppure così sfacciato, potrebbe sembrare già un rimando al passato. Attacchi di questo tipo spopolavano nelle produzioni anglofone di inizio anni Dieci, specie quelle firmate da Benny Blanco e Dr. Luke per artiste come Katy Perry e Kesha. Ma è Dynamite di Taio Cruz il modello più utile per capire come dal primo secondo Cremonini ed Elisa giocano con il tempo e le aspettative.
Questo genere di introduzione, con colpi di tastiera in staccato, sembra seguire un tempo zoppicante. Nello svelto 4/4 (intorno ai 120 bpm) che il nostro cervello involontariamente comincia a computare sentiamo la prima nota (un Si bemolle, sotto “Sai”) battuta sul primo tempo e la seconda nota (un Do, sotto “volte”) nel terzo tempo, ma entrambe arrivano con un impercettibile anticipo. Se non ti risulta chiaro questo lieve scarto ritmico, prova a saltare al minuto 1:48 del brano, quando la medesima parte torna cantata da Elisa, e un battito di mani tiene il tempo debole (il due e il quattro): noterai meglio questo artificio, che è tutto tranne che uno sbaglio. Anzi, è proprio per questa asimmetria che il primo riff funziona già da “gancio”: perché in questo anticipo, nel passo sbilanciato di questo ingranaggio sincopato percepiamo l’ansia del tempo che sfugge, un’accelerazione infinita che il testo ci invita ad assecondare (“tu baciala”, dice Cremonini della felicità, “non farla aspettare”).
Proprio come in Dynamite, inoltre, l’assenza dell’elemento armonico (la cosiddetta “terza” degli accordi) lascia aperto anche il campo alle interpretazioni, almeno a un primo momento: siamo tesi e angosciati o siamo eccitati e pronti all’azione? La canzone risponde a questo dilemma con una parola unica e chiara: sì. Perché una condizione non nega l’altra, perché l’incipit ci vuole allarmare ma anche preparare a un lancio. E capiremo presto perché questo ha molta importanza.
Nella seconda parte dell’introduzione, in verità, le cose cominciano a chiarirsi, a livello armonico e timbrico. Una tastiera arpeggia gli accordi con il suono “scampanellante” tipicamente ‘80-90 dei preset di pianoforte dei synth Yamaha DX7 e Korg M1. Un timbro inconfondibile, che specie nel secondo caso richiama la storia del dance pop e della house music a cavallo tra i due decenni, dalle hit da club a quelle delle classifiche. Questo mondo di riferimenti estetici si aprirà più chiaramente nella terza sezione del brano, a cui arriveremo. Intanto, la seconda parte sembra voler mettere ordine nel tempo: sentiamo la voce disincarnata di Elisa, trattata come un sample messo in loop, che ripete “nonostante tutto, nonostante solo, etc”, un mantra e un riff ritmico più che dei veri e propri versi. La cassa comincia a battere, rinsaldando il 4/4 del brano: non c’è più spazio per le sfumature presentate nell’introduzione, è il momento delle scelte. Qui Elisa ci presenta tutti i “nonostante” a cui farà fronte chiunque voglia abbracciare la felicità, anziché rifiutarla.
Sarebbe più comodo, nel contesto doloroso e caotico in cui viviamo, abbracciare il nulla. Anche una canzone d’amore, a volte, come ne hanno fatte tante Elisa e Cremonini (talvolta anche insieme) può sembrare una facile via d'uscita dai problemi. In questo caso, invece, non c’è scampo: dobbiamo fare i conti con la pila di angosce che viene depositata su di noi a ogni colpo di cassa. Buio, solo, perso, morto, rotto, poco, vago, scesa, pago: una somma di buone ragioni per mollare tutto. Invece il brano ci invita a spezzare il rigore soffocante di queste scuse, e di nuovo lo fa creando un’eccezione sul tempo, dove la cassa dritta molla il passo a un groove.
Ma per arrivarci serve un altro passaggio intermedio. Quando arriva un nuovo gancio melodico (“mi rimane la voglia”), l’orecchio è stato già
preparato a riceverlo, in modo subliminale: dentro il loop di “nonostante” di Elisa, come una crepa che si apre nel muro di casse, compare questa nuova linea melodica. Ancora prima di cogliere l’aspetto linguistico e contenutistico del verso, insomma, l’orecchio viene guidato da questo inciso a uscire dalla gabbia ritmica finora impostata. Ma una voce non basta. Ed è qui si apre una nuova trama ritmica, che spezza la forma quadrata impostata dalla seconda sezione del brano: è qui che arrivano le staffilate del cosiddetto “pianoforte rave”, i colpi in staccato che hanno fatto la storia della house music, e che con le loro sottili sincopi spezzano la monotonia dei “nonostante”. Nel pastiche temporale di questo brano siamo tornati indietro di altri 20 anni, ma i suoni della house sono ormai saldamente tornati al centro della scena – ne parlavamo a proposito di Peggy Gou. Il riferimento, quindi, sembra volutamente aperto: non un’allusione puntuale, da cogliere solo se si è iniziati, ma un rimando più largo (e pop) all’intera eredità del clubbing. Un’eredità che è sempre meno accessoria e marginale nella formazione del vocabolario musicale ed estetico mainstream, tanto da allarmare gli osservatori più attenti della scena su una sua possibile snaturazione.
E del resto Cremonini qui sembra farne uso per mandare un particolare messaggio: la pista da ballo non è un luogo dove fuggire dalla realtà; anzi, è un luogo fondamentale di resistenza e presa di coscienza della crisi. Questo genere di approccio alla musica dance non è nuovo, e ha portato anche a riflessioni molto profonde (e anche esplicitamente politiche, come non è in questo caso): per esempio, il libro Party Lines uscito un paio di anni fa in Regno Unito, si concentra proprio sul ciclo continuo di appropriazioni e riconquiste di clubbing e raving da parte della cultura maggioritaria. Ma possiamo fare anche un esempio più vicino a noi: il lavoro musicale e filosofico di un altro recente collaboratore di Not Waving, cioè Cosmo. Da quando ha presentato il suo progetto Cosmotronic nell’ormai remoto 2017, il produttore e cantautore
piemontese ha stuzzicato la coscienza pop del nostro paese, invitando a considerare l’aspetto rivoluzionario e attivo della dance elettronica, anziché quello consumistico e passivo.
È assolutamente un caso se un’eco della melodia del ritornello di Turbo (peraltro scritta anni prima che Natalizia e Cosmo collaborassero) si ravvisa nel terzo segmento del brano (“Sento una musica nella testa”). Una suggestione indiretta che deriva, semmai, dalla (non così) remota vicinanza di spirito dei due brani. La senti proprio tra i colpi di pianoforte, dove si realizza la promessa del brano. È dentro i confini rigidi della “cassa atomica che ci pesta” che bisogna apprezzare la mancanza di “logica”, è qui che dobbiamo ricavarci uno spazio di libertà e di felicità,
spezzandola quando serve, e abbracciando l’aspetto liberatorio e comunitario della “festa”. Non come rifugio, ma come arma. Ce lo dice l’arrangiamento, che specie al secondo giro del ritornello (“Voglio una musica che mi prenda la luce cosmica di una stella”) si rafforza e
cresce, con colpi distorti che accentuano il lavoro della cassa, probabilmente tra le percussioni più pesanti mai apparse in un pezzo di una popstar italiana.
A proposito di cose insolite, nel finale questo arrangiamento distorto e grasso appena descritto innesca qualcosa di veramente raro per il pop mainstream: una coda strumentale di un minuto e mezzo, che rielabora il giro armonico, fa entrare altre voci strumentali, e chiude in crescendo. Qualcosa sta cambiando nel pop – qualcuno ha predetto – e nel suo piccolo, nella sua occasione artistica e commerciale, Nonostante tutto è un momento che ricorderemo. Come abbiamo detto tante volte in questa rubrica, nell’economia dell’attenzione dell’ascoltatore è richiesto un bilanciamento equilibrato di familiarità e novità. Ora che la wave dance-pop è diventata parte integrante del panorama generalista italiano, ora che Cremonini ci ha presentato una (nuova) versione elettronica della sua musica con Alaska Baby, adesso siamo pronti anche per digerire qualcosa di diverso: un duetto che non parla d’amore; una collaborazione tra giganti del pop italiano dove le voci sanno anche mettersi in disparte, o partecipare come elementi strumentali, o palleggiarsi incisi senza pretendere ruoli da protagonista; una canzone che si chiude con un minuto e mezzo strumentale, per apprezzare l’aspetto puramente musicale di ciò che abbiamo sentito, per lasciarlo sedimentare e goderne anche fuori dalla continua esposizione a hook melodici fatti per accattivare l’orecchio. In tempi di canzoni fatte a forma di scrolling infinito e di protagonismo estenuante, questa è già una rivoluzione.