Melodrama è la (quasi) title-track dall’album poké melodrama pubblicato venerdì 31 maggio da Angelina Mango. La tesi per cui l’Italia sia il paese del canto andrebbe molto ridimensionata. Non perché manchino cantanti di talento in Italia (stiamo per parlare di una delle voci più talentuose e uniche del nostro mercato, dopotutto). Ma perché al pubblico italiano non basta la melodia. Vuole un po’ di storia: intorno e/o dentro alla canzone, come viene più comodo. L’ascoltatore desidera essere intrattenuto, magari una scusa per ballare o per pubblicare un TikTok, più che un inciso memorabile da ricantare. E lo dimostra una delle canzoni più ascoltate delle ultime settimane.
L’album arriva al culmine di un’evoluzione artistica che in queste pagine abbiamo seguito passo passo. Quando avevamo individuato le influenze flamenco di che t’o dico a fa’, per esempio. Come nelle più riuscite favole pop, il percorso non è solo dell’artista, ma anche del suo pubblico. Il quale, sentendo melodrama può riannodare i fili di questa relazione a distanza, riscoprendo ispirazioni e rievocando tappe del percorso di Angelina.
La prima cosa che avrà notato chiunque abbia messo su melodrama è la somiglianza con il sound di Rosalía. Di questo legame stilistico scrivemmo, appunto, a ottobre, ma melodrama gioca questa partita a carte scoperte, da subito. Il basso distorto e greve che dà il via alla canzone e la sostiene al 90% ricorda infatti quello di Saoko, prima traccia dall’album Motomami (2022) della popstar catalana. In Saoko, in realtà, il basso non è un basso: è un pianoforte distorto, saturato, trasfigurato – ce l’ha fatto vedere Rosalía in persona. Per quanto riguarda melodrama, invece, non sappiamo cosa sia stato usato dai produttori Cripo ed E.D.D. per produrre quella linea di basso: ma i suoni, per quanto simili, non sono uguali. Il timbro abrasivo di Saoko vuole ricordare i bassi industrial metallici e disturbati di The Downward Spiral dei Nine Inch Nails. Il suono crudo ma plastico del basso di melodrama richiama piuttosto una parte dell’estetica house inglese.
Ovviamente, la somiglianza non si ferma allo strato epidermico, ma anche nel riff suonato dai due brani. In entrambi i casi si combina un intervallo solido e ampio (per i nerd in ascolto: una quarta in melodrama, una quinta in Saoko) abbinata a un movimento cromatico di un solo semitono (il movimento minimo possibile su una tastiera o sul manico di una chitarra). Un riff costruito in questo modo combina la muscolarità di un deciso salto sulla scala all’inquietante sottigliezza del semitono – del resto, è l’intervallo su cui è costruita la colonna sonora di John Williams per Lo Squalo. L’effetto finale: un innalzamento di tensione; ci stiamo muovendo, sì, ma con l’adrenalina in aumento, come fossimo prede in attesa o predatori in agguato.
Nel caso di Rosalía, quest’atmosfera le permette di introdurre il motivo della metamorfosi che accomuna ogni donna quando si veste o si agghinda in un certo modo, un cambiamento che non deve essere preso alla leggera, che deve farci tremare. Per l’artista e il pubblico italiani, però, un concetto di questo tipo potrebbe risultare forse troppo astratto. Meglio una storia comune. Una vicenda autobiografica, magari. E dove Saoko ha fallito (per gli ascoltatori italiani, che non l’hanno mai mandata in classifica), melodrama riesce: perché la musica da sola non è sufficiente.
La storia che Angelina racconta ha tutto ciò che serve per intrigarci. Parte dall’adolescenza, dal bisogno di esprimersi e sfogarsi, possibilmente con l’arte della performance – come abbiamo notato tante volte, la musica più accattivante finisce spesso per parlare della musica stessa; quindi, prosegue con i turbamenti e gli “struggle” della giovinezza, la “voce rotta” e il senso di oppressione per il tempo che passa eppure sembra immobile (“bloccata nella bocca della clessidra”). Questa percezione di una trappola esistenziale ci rimanda all’irrequietezza di La noia: anche qui l’artista ci parla di una proiezione di sé in un altrove, l’Olanda che fa da margine estremo di una retta che parte da Lagonegro (la città dell’infanzia) e giunge a un generico mare – curiosamente, rispetto a Saoko Angelina rivendica la scelta di non diventare “un’altra”. Ed ecco un ulteriore elemento di forza del brano: collegandosi al tema e alla trama di La noia, ci ricorda una canzone alla quale siamo già affezionati, ed è come se parte dello sforzo per convincere l’ascoltatore fosse stato assolto in precedenza. Di certo, Mango non è ignara della presenza di un arco narrativo: basta considerare che nella tracklist dell’album le due tracce sono collocate una di seguito all’altra, e subito dopo un altro brano strettamente autobiografico come gioielli di famiglia. Non si può fare a meno di una storia.
Ma una canzone non funziona mai solo sul piano letterario. Ci vuole qualcosa in più, una cifra che faccia scattare la serratura della nostra memoria acustica. Forse è proprio per rinsaldare il legame con La noia che anche melodrama presenta una strofa cantata almeno parzialmente a cappella (dal minuto 1:03). Insomma, dopo appena un minuto la canzone ha sfruttato la nostra memoria a suo vantaggio: ci ha ricordato di un percorso estetico e stilistico iniziato in autunno; ci ha rievocato un suono, quello di una voce densa e viscerale che avevamo già sentito nella sua solitudine elettrizzante quest’inverno; e infine ci ha permesso di unire i puntini di un racconto autobiografico, benché esposto con tutte le necessarie semplificazioni del pop, nel momento in cui siamo più disponibili a dare retta, la release dell’album.
Ma non finisce qui: Angelina e gli altri autori/compositori (Federica Abbate, Alessandro La Cava, Nicola Lazzarin) non si accontentano di portarci nel Mango Musical Universe. Per questo melodrama è infarcita di altri espedienti presenti in tante canzoni di successo, che si susseguono senza pietà. Per esempio, un ritornello che cambia il flow, aumenta la complessità ritmica e melodica (“scusami se…”) e culmina in un acuto liberatorio (“vento del Suuud”). E subito dopo un drop con tutto quello che ne consegue: cambio di arrangiamento e mood e ritorno di prepotenza delle percussioni così da farci concentrare sul ritmo della canzone con la clave latinoamericana (“tum ta-tum-tà”). Strutture simili, con il ritornello bipartito in una sezione legata al canto e una al ballo non sono una novità – la discografia di Mahmood ne è piena, tanto per fare un esempio nel pop italiano.
Insomma, melodrama non lascia nulla al caso: è un sistema che non rinuncia a nessun ingranaggio per far girare la macchina, e il carisma di Angelina Mango è il lubrificante che fa girare tutto quanto con naturalezza. In questo modo, perfino in una stagione fitta di potenziali hit e aspiranti tormentoni come quella in cui stiamo entrando, anche questo scampolo di autobiografia della giovane popstar si fa notare.