Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Mandare tutto all’aria di Marco Mengoni
Facciamo un esperimento. Con una parola sola, una parola arcaica e polverosa, posso convincere quasi tutti a smettere di leggere questo articolo. Pronti? Tre, due, uno: madrigalismo. C’è ancora qualcuno? Bene, se sei ancora qui, posso spiegarti come mai ho frugato fra le naftaline del dizionario per spiegare cosa fa funzionare estremamente bene il nuovo singolo di Marco Mengoni uscito ieri, Mandare tutto all’aria.
Prima, definiamo quella parola astrusa. Per madrigalismo si intende “un procedimento tecnico grazie al quale la musica dà veste sonora a un’immagine, un concetto, un’idea suggerita dal testo poetico”, ci spiega Claudio Toscani nella Storia della civiltà europea curata da Umberto Eco nel 2014. Senza approfondire cause e implicazioni storico-artistiche che nel ‘500 italiano diedero una certa popolarità a questa pratica antica come la poesia, possiamo aggiungere che il suo funzionamento dipende dal pensiero associativo e dalle sinestesie: solo così, infatti, siamo capaci di interpretare e spiegare la musica. Se, cioè, non percepissimo certe note come “alte” o “basse”, se non percepissimo l’accelerare e il rallentare di un tempo, se non avessimo storicamente abbinato sentimenti positivi o negativi a certe sequenze di note e accordi, neppure il più ingegnoso compositore barocco potrebbe ingannarci con questi trucchetti.
Dato che il nostro orecchio e la nostra mente, invece, sono ben disposti a farsi gabbare, usare un certo fraseggio o certi colori musicali per abbinare quello che la parola lirica descrive alla parola stessa diventa un passatempo come un altro per svoltare un pomeriggio in una corte rinascimentale. Un divertimento macchinoso, non c’è dubbio, ma efficace: perché il principio per cui “funziona” ci sembra naturale – non lo è, è proprio il contrario, ma ogni tanto bisogna stare al gioco. Fatto sta che, ancora oggi, a distanza di mezzo millennio, può capitare di incontrare un madrigalismo nella musica popolare.
Facciamo un esempio talmente facile da essere quasi didascalico, e di cui si trovano infinite liste: le canzoni in inglese che, a un certo punto, descrivono un moto verso l’alto, metaforico o meno, cantando la parola “high” (alto, in alto) su una nota eccezionalmente… alta. Abbiamo High and dry dei Radiohead e Under pressure dei Queen e David Bowie; Rocket Man di Elton John ed Emotions di Mariah Carey, probabilmente la reincarnazione di un madrigalista. Liste simili si possono compilare anche cambiando direzione all’ingiù, ma non mi dilungherò e lascerò qui soltanto Ring of Fire di Johnny Cash. E Hallelujah di Leonard Cohen, che ha l’ardire di chiamare per nome gli accordi che effettivamente accompagnano il testo (il quarto, il quinto, il minore, il maggiore).
Semmai, possiamo approfittare di questo paragrafo per inserire qualche esempio italiano. La “salita” di Lucio Battisti sulle “risalite” di Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi che tocca regolarmente la nota più alta anche sulle parole “su nel cielo” e “ancora in alto”, e – com’è naturale – scende sulle parole “e poi giù”. Manco a dirlo, le ascese vertiginose nei “vado su, vado su, vado su” di Mina in Brava. O, se vogliamo, il rubato (rallentamento, per intenderci) sugli “abbandonati” de Il cielo in una stanza, a suggerire forse il rallentamento del battito cardiaco dei due amanti esausti? Insomma, che lo si chiami madrigalismo o no, i compositori di talento sanno usare le note e il tempo in tandem con le parole per suggerire qualcosa di subliminale, un’impressione istantanea che trasmetta il messaggio in modo duraturo. E allora, qual è il messaggio del nuovo singolo di Marco Mengoni? Un’esplosione.
“Mandare tutto all’aria” è un’espressione curiosa. Nella sua accezione più generica la usiamo per dire “rovinare, sciupare, sprecare”. Non che queste non siano interessanti, ma se la prendiamo alla lettera troviamo un senso molto dinamico, l’atto di lanciare (o meglio di provocare un lancio) in aria. Rovesciare, ma anche far esplodere, appunto, qualcosa che necessariamente, poi, si ritrova a volare per aria. “Mandare tutto all’aria”, insomma, è un gesto che non può semplicemente intendersi come un errore di valutazione: c’è chi lo utilizza in questo modo nei suoi testi, ma quello che descrive Mengoni in questo brano firmato con Calcutta e Andrea Suriani (che producono con Giovanni Pallotti) e il solito, ubiquo Davide Petrella, è un atto intenzionale, non una svista. Intenzionale, ma non per questo giustificato.
Le strofe ce lo fanno capire. La voce narrante descrive uno stato di disagio, che spinge il protagonista all’inazione: vorrebbe migliorarsi, ma non lo fa, non ne è capace; ma soprattutto, non riesce ad apprezzare quel che possiede nel momento in cui lo possiede – “perché non vedi prima che era meglio prima”, un giro di parole che dentro la sua forma arguta ci suggerisce ulteriore staticità. Tutto si muove, ma solo all’apparenza: per meglio dire, tutto si agita a vuoto. Come nel videoclip, in cui le persone camminano in uno spazio nero privo di riferimenti, sgombro, e non vanno da nessuna parte, così seguiamo i passi inani del basso.
Con il suo timbro metallico, rotondo, filtrato, probabilmente suonato su un Roland TB-303 o simile (o emulatore), esegue sempre la stessa nota, con un salto di ottava (la stessa nota, ma “più alta”): tutta energia senza direzione, senza scopo. Entrambe le scelte (di timbro e di tono) rimandano tipicamente al French Touch, il genere di musica elettronica revivalista e retrofuturistica che grazie a un mash-up spazio-temporale di euro disco, funk, house conquistò negli anni ‘90 prima i club parigini e poi a cavallo dei due secoli le classifiche di mezzo mondo grazie a DJ/produttori come Daft Punk, Stardust, Étienne de Crécy e Cassius. Un basso del genere si può sentire in Palladium (Alan Braxe, Fred Falke), traccia che come Mandare tutto all’aria rispetta un altro dettame del French Touch: iniziare con un giro (qui solo mezzo) di pura drum machine, anche qui probabilmente di marca Roland.
Sottolineare il debito stilistico di questo singolo alla house francese non è solo un diletto da giornalista musicale. I maestri di quella scuola e i suoi continuatori come Bob Sinclar e David Guetta hanno insegnato a generazioni di produttori EDM e pop come estrarre tutto il succo da un groove martellante, tanto dinamico quanto poco cinetico, senza annoiare l’ascoltatore, ma anzi trascinandolo con un calibratissimo gioco di filtri e una sapiente scelta di giri di accordi. Nel DNA del French Touch c’è una capacità di dominare l’attenzione dell’ascoltatore. Se nel 2003 Thomas Bangalter (Daft Punk) e DJ Falcon potevano produrre 10 minuti e 44 secondi di So Much Love To Give, un loop ripetuto migliaia di volte dello stesso segmento di 5 secondi e 4 accordi, senza temere di annoiare (ma portando alla pazzia, probabilmente) è perché quel giro, quell’attacco, quel rilascio hanno qualcosa di straordinariamente appiccicoso e soddisfacente. Come uno snack musicale ben congegnato, in un piccolo morso contiene tutto quello che cerchi. Ma per gustarsi di più questo boccone, bisogna farsi venire un appetito.
L’altro effetto desiderato di questa strofa impassibile e dritta, quindi, è l’accumulazione di tensione che culmina nel drop. Che – come abbiamo visto più volte in questa rubrica – è il dispositivo di detonazione del ritornello nel pop di oggi. Il crescendo c’è, ma viene dipanato con estremo tatto. Prima entra un tappetino synth che per timbro potrebbe ricordare gli Oberheim di metà anni ‘80 o un Roland Jupiter-6 – forse non un Korg simile a quello che si vede nella copertina del singolo (non bellissima, forse creata con un’AI non preparata sull’aspetto delle tastiere). Poco importa, conta che il suo suono sia brillante ma stinto, elegante ma stazzonato, calibrato ma oversize: come il completo a metà fra Borat e David Byrne che Mengoni indossa nel video, questi “pad” di accordi ci suggeriscono l’armonia ma soprattutto ci fanno sospettare che qualcosa di ancora più scintillante sia in arrivo. Che il protagonista, stanco e frustrato, abbia un asso nel manico.
Ed è così. Dopo aver inserito dei “colpi” di una voce campionata (sarebbe bello conoscerne la fonte) nell’economia della base, la tastiera tace e prepara il build-up per il drop, o in termini meno oscuri il carico prima del tiro: il fatto che cinque settimi del verso siano collocati nell’ultima battuta che precede il ritornello contribuisce alla potenza del rilascio, che avviene sulla parola “aria” (di questo modo di disporre le melodie nella griglia di una canzone parlammo già). Così, quando arriva finalmente il ritornello, tutta l’energia accumulata può scaricarsi, mettendo – finalmente – la musica al servizio della parola.
Mentre Mengoni canta “mandare tutto all’aria”, ogni elemento della canzone va (per così dire) all’aria: il loop di due accordi che reggeva a malapena la strofa si dipana in un giro con un costrutto, che non teme la tonalità minore del brano e anzi sferra un uno-due micidiale, che – se vogliamo rimanere in ambito French Touch – ricorda alla lontana Signatune del compianto DJ Mehdi. Intanto, la chitarra pulsante, carezzata con pennate secche secondo le usanze della discomusic (Nile Rodgers docet, come dimostra Le Knight Club o l’intero progetto Random Access Memories), aggiunge al groove un nuovo strato e nuovi elementi.
Questa parte strumentale, che non si poteva udire prima e che ritornerà a tacere subito dopo la fine del ritornello, piomba sopra la traccia come un raggio lunare. E a dargli un ulteriore tocco extraterrestre c’è un trattamento del suono che potrebbe essere un classico effetto “phaser”, di nuovo tipicamente French Touch (pensa a questo classico dei Modjo), che conferisce al suono una geometria vorticosa, quasi da effetto Doppler: non basta, insomma, far scattare questo giro di accordi energico; bisogna che sia a piena saturazione, che occupi ogni spazio. E proprio per questo scopo, anche il basso finalmente si schioda dalla sua comoda stazione di partenza e contribuisce a muovere la canzone. Per non parlare del beat, che proprio nel ritornello mette in evidenza il trucco forse più importante della house alla francese: la compressione del suono che, in soldoni, fa suonare ugualmente rumorosi tutti gli strumenti coinvolti. Lo si apprezza in particolare nei bassi e nella batteria, che fanno come un salto in corrispondenza del chorus. Creando, peraltro, il sufficiente spazio dinamico per sentire uno stacco netto tra strofa e ritornello: una tecnica di cui Calcutta sa qualcosa.
Insomma, la canzone fa esattamente quello che viene cantato. E anche qualcosa in più. Se fai caso alla maniera in cui il titolo è presentato ufficialmente (ManDarE TuTto All'aRIA) le lettere sono… tutte all’aria: forse non possiamo arrivare a definirlo un calligramma, che del madrigalismo è un cugino stretto, ma ci siamo quasi. Come dicevamo la scorsa settimana, per gli artisti pop di oggi, che in un modo o nell’altro sono costretti a comunicare quasi quotidianamente con il loro pubblico, trovare un modo per segnare una cesura e il passaggio a una nuova “era” è molto importante. Ma trattandosi di pop, il nuovo non deve mai sovrastare il familiare: è la stessa bilancia sulla quale la voce narrante di questo singolo pone da una parte la voglia di “magari per una volta cambiare strada” e la consapevolezza di essere una persona che “non vuole mandare tutto all’aria” (ancora una volta, la canzone che parla in modo subliminale di sé stessa ha già fatto un passo per diventare tormentone).
Così, se abbiamo segnalato le differenze di questo nuovo corso, ritroviamo anche elementi conosciuti, a partire da un bridge che permette alla voce di Mengoni di stiracchiarsi sulla scala e mollare un acuto (non è proprio un cambio di tonalità soul, ma l’effetto è lo stesso, cioè la proverbiale “apertura”). Del resto, anche la collaborazione con Calcutta non è inedita – il featuring con ARIETE Due nuvole. E neppure la pubblicazione di brani dall’identità danzereccia – possiamo citare Onde del 2017, tanto per chiamare in causa un’altra firma indie (quella volta di Niccolò Contessa). In un momento in cui il pop italiano corteggia spesso e volentieri la club culture, Mengoni trova la sua tazza di tè: un approccio da intenditori, abbastanza vicino nei gusti e nella memoria del pubblico per destare un ricordo, abbastanza lontano dalle pratiche degli altri colleghi per distinguersi; e soprattutto, con tutto lo spazio sufficiente per scaldare i suoi muscoli vocali. Non sappiamo ancora se questo pezzo indicherà una nuova direzione, ma per adesso ha mandato tutto all’aria.