Solo le scienze conoscono leggi immutabili e universali. Ma, quando parliamo di pop, ciò che ha funzionato nel 1964 spesso continua a funzionare nel 2024: magari dobbiamo togliere alcuni strati di carrozzeria, ma il motore che muove l’attenzione userà lo stesso carburante. Questo perché, a prescindere dal valore culturale che assegniamo a questo o a quell’elemento estetico e sonoro, alcune canzoni sembrano funzionare per le stesse ragioni per cui funzionavano le canzoni a cui si ispirano: come nel caso di Malavita dei Coma Cose.
Il primo amo che l’ultimo singolo del duo lancia nello stagno del pubblico è la novità, la sorpresa, quel minimo contatto con l’ignoto che ogni aspirante hit deve promettere a chi ascolta: non troppa novità, se possibile, ma sufficiente per non annoiare. In questo caso, il “nuovo” appare da subito. Nel testo, che non ha l’impronta autobiografica e riflessiva tipica della produzione precedente dei Coma_Cose. Fausto e California hanno sempre messo le loro vite al centro della scrittura, usando la loro esperienza metropolitana e domestica, la loro radice provinciale e i loro traumi generazionali come prisma per lanciare raggi di senso nelle direzioni del pubblico. Malavita non funziona così: fin dal primo verso ci viene presentato un personaggio “altro”, con un nome (d’arte) ben preciso, Monna Lisa, e una storia da ascoltare. E, di conseguenza, restiamo a sentire.
Non è che i Coma_Cose non abbiano mai raccontato nulla. A grandi linee una storia può trovarsi anche dentro canzoni come Mancarsi o Via Gola: tra le righe delle loro strofe si intravede una vicenda con protagonisti (Fausto e/o California stessi), luoghi (le strade di Milano) e tempi (la notte, spesso). Ma fare storytelling come in Malavita è un altro mestiere, nel quale si tratta una canzone come fosse un film o una novella: non solo qua il personaggio principale è altro dalla voce narrante, ma il contesto in cui si trova e le azioni che compie sono oggetti che il narratore espone al pubblico per indagarli insieme e interpretarne il senso. Roba da aedi e cantastorie, più che da poeti lirici. Questo tipo di racconto in musica appartiene ai repertori folk, contenitori di storie, narrate sia in prima che in terza persona, da tramandare di generazione in generazione con i loro bagagli di messaggi e melodie. Malavita viene a qui, e non a caso molti hanno sentito una parentela con Bocca di rosa di Fabrizio De André – forse anche per assonanza con “Bocca di vino color di quaresima” nella seconda strofa? La vicenda di Monna Lisa, presentata in questo modo, ha un che di esemplare da scoprire e imparare, e siamo invitati a sentire come andrà a finire. Ecco il primo gancio di Malavita, un gancio narrativo che funzionava nella chanson di Brassens come in The A Team di Ed Sheeran – già, talvolta si fa storytelling folk anche nel mega-pop da classifica.
Nello stesso preciso momento in cui l’ascoltatore digerisce la prima novità (questa scrittura eccezionalmente narrativa) si sente un’altra differenza, questa volta musicale. Una chitarra classica, con le sue corde morbide, strimpella un La minore. I Coma_Cose, che pure hanno esplorato e toccato generi e stili in lungo e in largo nei loro progetti discografici (dal grunge al dub, dal krautrock elettronico al pop barocco anni Sessanta) non si erano mai avvicinati a un genere così tradizionale. Il giro di accordi, ribadito per l’intera canzone, non fa che confermare questa radice: si tratta di una progressione costruita sulla scala minore armonica di La, che sale e scende secondo un movimento tipico del flamenco e ancor più della ciaccona, danza spagnola che precede anche il genere andaluso (anche se forse la più celebre fu scritta da Bach). Se abbiamo una qualche cognizione di cosa il duo abbia suonato in passato, Malavita non può che stuzzicare la nostra curiosità: sia la scrittura (opera di Fausto e California con Federica Abbate e Jacopo Ettorre) sia la composizione e arrangiamento (di Eugenio Maimone, Federico “Merk” Mercuri, Giordano “Kremont” Cremona e Leonardo Grillotti) descrivono qualcosa di nuovo e inaspettato.
Ma c’è solo una cosa più efficace nella guerra per l’attenzione rispetto al “sorprendente”: il familiare, il conosciuto, lo scontato. E Malavita suona diversi campanelli anche qui. Della vicinanza di spirito con la ballata deandriana abbiamo già detto, e si potrebbero trovare legami tematici o sonori con altri brani, specie dei primi anni (da La canzone di Barbara a Il testamento), tirando lunghi fili che dal leggendario cantautore portano a espressioni come “figlia del porto”, o a una cadenza lirico-melodica davvero faberiana come “tu non ami, tu fai solo l’amore”. Ma esiste un altro collegamento remoto, ed è con il folklore del Sud Italia: quando Malavita “accelera” il passo, infatti, prende chiaramente le sembianze di una tarantella. Nel pre-ritornello arrivano le percussioni: si sente distintamente un tamburello (o un campione elettronico di tamburello). Il richiamo alla tarantella è nel timbro, ma anche nel ritmo stesso, nella distribuzione dei tempi forti e deboli lungo l’architettura metrica del passaggio. Sentiamo un 4/4 diviso in due tempi: nella prima battuta si colpisce sull’1 e sul 3; nella seconda il movimento è spezzettato con tre colpi sui primi tre quarti – in sostanza “tà tà, tà-tà-tà”. Un ritmo antico, certo, ma ben conosciuto a tutto il pubblico italiano, che viene catapultato dalla penisola iberica al meridione con uno strattone veloce.
A proposito di strattoni, non facciamo in tempo ad abituarci alla festa paesana che veniamo sbattuti in un sabato sera suburbano. Merito della produzione ITACA, che fa capo sempre ai suddetti Merk & Kremont, cioè due navigati conoscitori della dance, che con un colpo di genio uniscono due contesti così lontani fra loro. Strascicato in un vortice dalla ripetizione ossessiva di “malavita, malavita” il pattern ritmico da tarantella descritto sopra viene fatto precipitare in una cassa dritta, dove ogni quarto è battuto dal tamburello, a questo punto sostenuto da una kick drum corposa – la cassa, per l’appunto. Si fonde così l’estetica del ballo in piazza al ballo nel capannone di provincia, due luoghi dove ugualmente potrebbe essere ambientata la storia di violenza, abuso e sogno di libertà della protagonista Monna Lisa. Come per dire che non esiste luogo dove una donna debba sentirsi obbligata a rinunciare alla sua libertà e autonomia. Giocare con gli immaginari, mescolare riferimenti senza troppa riverenza, per far cogliere immediatamente l’universalità di un messaggio, è stato per anni uno dei marchi di fabbrica dei Coma Cose, che per questa ragione si sono fatti una fama di artisti irrituali, dadaisti, post-moderni: anche in questo brano così spinto sulla dance, apparentemente così leggero e vaporoso, ritroviamo invece le tracce dei loro percorsi erranti nel tempo e nelle culture musicali. E, di rimando, nelle culture patriarcali (compresa la nostra attuale) dove le vicende di Malavita potrebbero essere ambientate. L’antico e il contemporaneo, l’ancestrale e il commerciale: Malavita propone una sintesi di questi opposti, sovvertendo le aspettative (come quel “malavita” che diventa “ma la vita”, ovvio calembour in puro stile Coma_Cose). Per divertire, senza dubbio, ma anche per stuzzicare l’immaginazione.
E se parliamo di clash di contesti, non c’è luogo più adatto di TikTok per ammirare lo snaturamento, la riappropriazione, la reinvenzione di Malavita. Non è la prima volta che usiamo il popolarissimo social per comprendere quale sezione di un brano sia “arrivata” in particolare (lo facemmo con Mon Amour, per esempio). E ancora una volta i balletti di TikTok si rivelano utili per comprendere come una canzone, magari dopo qualche settimana di galleggiamento, riesca a riemergere come “trend” e crescere di popolarità – fino a finire, attualmente, sul podio delle rotazioni radiofoniche.
E qual è la sentenza del social sull’efficacia del brano? Che il punto più efficace e “virale” sta proprio in quel cambio di passo sopra descritto, nel momento cioè in cui la pizzica diventa EDM. Possiamo dirlo osservando in modo empirico le due ondate con cui il brano è stato presentato sul social. In un primo momento, con una selezione integrale del primo pre-ritornello (da “Ma è una niña di mondo…” in avanti): nonostante un paio di video del popolarissimo coreografo Joey Di Stefano, questa selezione non ha propriamente preso il volo. In un secondo momento, da inizio giugno, è stato riproposto un frammento ancora più conciso dello stesso pre-ritornello (da “Odia le foto…”), che in meno di 10 secondi arriva all’ambito drop della cassa. Il nuovo segmento, peraltro, è stato accompagnato da una coreografia ufficiale ballata dalla stessa California e mutuata dal video ufficiale, che è stata presto imitata da creator piuttosto popolari, aiutando una diffusione più capillare: tra questi Sarah Toscano, che già aveva interpretato la canzone nella finale di Amici, poi vinta (anche se quella performance non sembra aver avuto lo stesso impatto promozionale di questi balletti).
E così, la promozione social del brano ha sacrificato un segmento di brano, inceppando probabilmente anche la sua comprensibilità lirica, ma ha aiutato a mettere in luce il suo punto forte musicale e, potenzialmente, la sua fortuna nei dj-set estivi. Ovviamente, Malavita offre di più: del resto, valutare una canzone dai suoi TikTok sarebbe come valutare un film dal suo trailer, e allo stesso modo sarebbe fuorviante misurare il successo della prima sui numeri dei secondi. Ma se vogliamo individuare le ragioni per cui una canzone funziona, e “dove” funziona, probabilmente può far comodo ogni tanto dare retta ai balletti.