
Quasi tutte le canzoni d’amore obbediscono alle regole ferree della logica aristotelica e al suo principio di non contraddizione. Immagina un diagramma ad albero: da una parte l’oggetto della canzone corrisponde l’amore del cantante, dall’altra non lo corrisponde (perché non contraccambia, o perché la persona è ignara), e non si dà una terza opzione; da ciascun ramo discendono altri due rami, che ci aiutano a determinare se la canzone è interpretata (idealmente) in presenza o in assenza della persona amata, e anche qui non si dà una terza opzione. Se ci pensi, quasi tutte le canzoni che girano intorno al tema più usato e abusato possono discendere lungo questi rami, che ci aiutano a capire se dobbiamo immaginare l’oggetto dell’amore come in ascolto, oppure no; o anche solo districarci tra i pronomi: tu, lei, lui, noi, loro, gli altri. E non bisogna pensare che dentro questo schemino non ci sia spazio per il genio, anzi: vai a dire a tuttiche questa è la tua canzone; quanti capelli che hai, non si riesce a contare; quando la mia anima era nel reparto oggetti smarriti sei venuto a prenderla tu; non sono io la ragazza che porterai a casa; e così via. Ma di tanto in tanto, arriva una canzone che ci spiazza perché mette i bastoni tra le ruote della logica aristotelica: a chi sta parlando l’artista? L’amore di cui parla è solo un’allegoria? LEI di Marracash è un esempio evidente di ciò, ed è anche per questo che non si stacca più dalla testa di chi l’ascolta, specie se arriva fino all’ultima parola di un testo che fa della serenità e dell’infelicità un’unica, complessa, inestricabile emozione.
Se l’intenzione di Marracash con È finita la pace era far scoppiare la bolla di un ecosistema culturale tossico e malsano, mandare a gambe all’aria le narrazioni dominanti, insinuare il dubbio nella coscienza di un paese e di un pubblico che si è bevuto tutti i cliché, allora LEI è parte di questo progetto. Perché anche il modo di raccontare le relazioni (dentro e fuori le canzoni) ha alcuni vizi strutturali, accettati come inevitabili. “Lei è nature, no rifatta”, oltre a ricordare un verso di HUMBLE di Kendrick Lamar, riflette un sentimento a parole tutt’altro che minoritario (una celebrazione della bellezza vera e genuina) ma nei fatti contrario alla logica distributiva del “contenuto” (parola che comparirà nella seconda strofa) sulle piattaforme digitali. Come si diceva parlando dell’ennesima polemica sull’autotune, questo mondo desidera autenticità ma non accetta le imperfezioni. Il secondo verso ha una rilevanza musicale ancora più netta: "Non vuol farmi da mamma o balia", oltre a riflettere un messaggio che – come sappiamo dalla canzone DUBBI – è caro a Marracash, sembra rispecchiare all’inverso le abitudini linguistiche e culturali dell’hip-hop che, in America come in Italia, ha fatto delle madri icone irraggiungibili – soprattutto dalle future compagne di maschi molto insicuri.
Le ragioni di questa focalizzazione sui ruoli materni sono molteplici, e hanno a che fare prima di tutto con contesti sociali impoveriti, marginalizzati, spogliati di dignità. Ma anche con i modelli stessi, perché nella cultura popolare nessun concetto esiste nel vuoto e ben presto entra in un ciclo di feedback che lo rende sempre più grosso e chiassoso, a prescindere dalla bontà del punto di partenza. È così, del resto, che funzionano le “bolle”: un mondo di idee e immagini a parte, retto da logica e coerenza, dove ogni nuovo input non ha modo di uscire, e così si nutre a ripetizione delle stesse idee e immagini. E in molte delle canzoni d’amore che vanno per la maggiore (e quindi sono cantate da maschi eterosessuali, la categoria di artisti privilegiata dal pubblico italiano) le donne hanno pochi e precisi compiti: devono essere belle a ogni costo; devono badare alle bizze di ragazzini intrappolati nel corpo di adulti; devono smettere di telefonare o, in alternativa, rispondere a quel maledetto telefono; devono essere pronte e reperibili, e andarsene per sempre quando non sono più gradite; devono capire e perdonare. Mamme e balie, insomma, purché molto sexy.
Questa differenza di fondo è già un punto di forza per LEI: come abbiamo ripetuto alla noia, le canzoni di successo sanno camminare in bilico tra ciò che è familiare e la voragine di novità che si trova sotto. Non c’è nulla di meno ritrito di una canzone d’amore, perché "il libro dell’amore contiene musica, anzi a dir la verità è da dove proviene la musica: qualcuna trascendentale, qualcuna idiota, ma adoro quando canti per me". E quindi esistono sempre buone ragioni per cantare d’amore: metti che ti capita fra le mani un’espressione come "mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare". Ancora più ambizioso è provare a riscrivere le regole dell’attrazione e i modelli di amore, specie in un paese maschilista e patriarcale come il nostro. E Marracash, con la sua penna sempre immersa nell’inchiostro del rap anche in questa fase della sua carriera post-genere, riscrive guardandosi dentro ma anche guardandosi intorno, costruendo ma anche demolendo, in quel ritmo di azione e reazione, introspezione e osservazione, che è la più pura espressione della lirica hip-hop. Per questo, nelle strofe l’artista ci dice chi è ma anche chi *non* è lei: a metà fra la poesia degli stilnovisti (peraltro arcinoti per i loro dissing) che descrive l’ideale di una donna, a prescindere che essa esista o meno, e la poesia dei modernisti, alle prese con i limiti dell’esperienza vissuta e la fallibilità dell’essere umano, Marracash scolpisce un ritratto di materia e anti-materia poetica, che come in un’equazione finisce nel nulla: “non credo che esista”.

L’ascoltatore, allora, resta rapito dall’espressione di un desiderio che è ancora più forte di quello puramente sentimentale: è una ricerca quasi spirituale, che per quanto frustrante e forse infinita, vale la pena perseguire come si fissa “una costellazione” finché non “svanisce all’alba”. Ed è qui che la musica dà sostegno a questo messaggio. Con la produzione degli ormai fidati sodali Marz e Zef, Marracash attinge dal bagaglio di suoni che tra gli anni ‘90 e il nuovo millennio, tra progressive house, ambient e trance hanno costituito una koiné sonora ma anche tematica ben precisa: pad, cioè suoni sostenuti di tastiera, spesso monofonici ma allargati da una serie di effetti, che sottolineano l’armonia del brano e i suoi cambiamenti; contrappunti che sottintendono più che imporre un ritmo; leitmotiv melodici suggeriti ed espansi senza strappi; timbri sintetici che suggeriscono rigore glaciale ma anche una splendente bellezza celestiale, quasi neoclassica; colpi di cassa dal suono quasi sommerso; pause nette (altrimenti dette breakdown) che fanno da bridge tra sezioni con effetto di sospensione più che di costruzione dell’attesa; testi che parlano di una ricerca di pace e serenità, di un’astrazione dal caos metropolitano, di ricerche impossibili e utopie cosmiche.
Questo tipo di identità musicale si presta benissimo al discorso di Marra, che del resto canta su un giro di accordi che ha molto della trance: la fluttuazione lentissima tra il La maggiore e il Do# minore che regge la prima metà della progressione non è nuova alle produzioni trance, come Coming Home di Armin Van Buuren. Il che non stupisce perché, suonando i due accordi di questo giro in una particolare conformazione della tastiera (con l’accordo costruito sulla cosiddetta nota caratteristica in “seconda inversione”, cioè con la nota tradizionalmente più alta della triada nella posizione più bassa) si crea uno strano effetto: tra questo accordo maggiore e questo accordo minore si instaura una differenza apparente di un solo semitono (in questo caso tra il La e il Sol#). Cioè, una grande differenza emotiva a costo di un piccolissimo movimento. E questa è la posizione di Marracash: la certezza di conoscere com’è fatta la persona con cui vorrebbe vivere per sempre, e l’amara consapevolezza che questa persona probabilmente non esiste.
L’apparente stasi della prima metà del giro si contrappone alla tensione acuta della seconda metà, dove nell’altalena degli accordi entra un Re maggiore al posto del La. Se ci fai caso, tutti i punti più aspri e malinconici del testo riposano in questi movimenti, e sopra questi ci viene fornita l’immagine di ciò che finisce o svanisce all’alba – una costellazione, una festa, una relazione. Anche in questo caso gli accordi riposano vicino tra loro, e le tastiere larghe e il tempo moderato del brano certo non ci fanno sentire un movimento traumatico. Del resto, un simile tipo di inserto dondolante tra accordi di questa specie si ritrova proprio in canzoni che vogliono suggerire un turbamento che attanaglia e lascia immobili, quasi una situazione onirica (che guarda caso è la condizione ideale della musica trance), o di annegamento del dolore: come nel caso del ritornello di Just Like Heaven dei Cure (“You, soft and only”); o nella tensione tra abbandono e tristezza di Sorry di Beyoncé (che non a caso apre questa sezione del suo visual album con la parola “apatia”).
Eppure, a confronto con la prima metà del giro, qui sentiamo uno strappo. Marra è consapevole dall’inizio che “lei” è prima di tutto un ideale; ma il fatto stesso che questo ideale sia definito non come proiezione dei suoi desideri, non come estensione della sua persona, ma proprio in virtù della sua indipendenza (“non è mia, non sono suo”), lo porta a dover convivere con il dubbio che “il problema” non “sia in lei”. Cioè, che queste stesse solide certezze sentimentali e questa impalcatura armonica inscalfibile lo rendano incapace di arrivare a una relazione altrettanto stabile, che questa persona desiderata non esista. E quindi che il suo stesso miraggio di felicità sia la causa di un’irrisolvibile infelicità. Anche uscendo dalla bolla che gli altri hanno costruito per noi, insomma, possiamo ritrovarci bloccati in una bolla di nostra ideazione. Che uscendo dagli schemi binari della canzone d’amore ci ritroviamo smarriti in un labirinto senza uscita. Ed è qui che LEI ci offre una catarsi, quella che sta permettendo al brano di girare ancora dopo quattro mesi dalla sua uscita, quella che rende la sua malinconia così accettabile alle nostre orecchie di ascoltatori distratti e persi nelle nostre bolle, spesso avvelenate da modelli di relazioni tossiche, fidanzate-balie, donne-oggetto: la rassegnazione serena che, anche se “lei” non esiste, questo non è “un problema”.
