Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Istinto animale di Don Joe feat. Guè, Annalisa e Ernia
Esiste una canzone unanimemente riconosciuta come “l’inno nazionale dell’hip-hop”. Non è una traccia rap, tanto per cominciare, ma è una canzone che è finita dentro centinaia e centinaia di pezzi rap. E ha visto la luce, nella versione definitiva, solo pochi mesi prima che la storia dell’hip-hop come lo intendiamo iniziasse – almeno secondo la leggenda. Non era altro che la cover di un brano strumentale, scritto su ispirazione di un film western dal compositore Jerry Lordan in Inghilterra 13 anni prima, reso inizialmente celebre da una band chiamata The Shadows che era nota non certo per il groove, ma per il suo uso pesante degli effetti di eco e delay sulle chitarre (peraltro, anche grazie a una macchina di produzione italiana, la Meazzi Echomatic). E quindi, inciso nuovamente da una band messa in piedi da un produttore con una vita quasi da Forrest Gump. Ma nulla di tutto ciò l’ha portato al rango di “inno hip-hop”: non l’ispirazione western né la chitarra né la storia del bizzarro uomo che l’ha vista nascere. Bensì la batteria. E un bongo. Sto parlando di Apache della Incredible Bongo Band, la canzone senza la quale, quest’estate, ti ritroveresti a ballare sopra un probabile tormentone molto differente.
Istinto animale di Don Joe con Guè, Annalisa ed Ernia, la presumibile hit che potrebbe rimbalzare di radio in radio per i prossimi tre mesi, non aspira al successo soltanto con l’aiuto del campionamento celeberrimo di cui abbiamo accennato (e su cui torneremo). La sua forza, prima di tutto, sta in una delle più solide strategie discografiche attuali: il raggruppamento, cioè il featuring multiplo. Nel rap esistono da sempre le “posse cut”, tracce con quattro o più MC, possibilmente (ma non necessariamente) provenienti dalla stessa crew, un modo per dimostrare rispetto reciproco e una comunione di gusti e valori – un po’ il contrario del beef, se qualcuno si stesse chiedendo cosa stia succedendo fra Drake e Kendrick Lamar. Il tutto ha, naturalmente, anche delle ricadute commerciali: l’unione fa la forza, insomma. Da diversi anni questa dinamica è stata integrata nelle più normali logiche dell’ospitata (o featuring) pop, dove l’accostamento di due artisti (anche molto diversi tra loro), se ben orchestrato e pensato, può essere positivo per le vendite: se fatta bene, una canzone con il featuring può accorpare due pubblici che non provino repulsione per il rispettivo beniamino e siano disposti a fare la stessa strada per tre minuti, raddoppiando virtualmente l’audience di ciascun artista.
L’ospitata multipla è ancora più complessa, sulla carta: un equilibrismo di gusti, target, abitudini che spesso rischia di deragliare fuori da un discorso artistico o creativo. Per questo, probabilmente i raggruppamenti hanno più senso quando il “padrone di casa” è il producer, anziché uno degli artisti coinvolti – come in questo singolo – come a dimostrare l’adesione a un suono di artisti diversi per carattere e “vibe”. In ogni caso, l’esperimento del grande mucchio di artisti è riuscito: nel 2023 il 21% delle canzoni di massimo successo commerciale (stando alle classifiche annuali FIMI) conteneva tre o più artisti; nel 2022 era il 14%; nel 2021 il 12%. E non è certo una cosa soltanto italiana, anzi. Se dobbiamo dare retta ai risultati commerciali e al grosso del mainstream, il pubblico parrebbe poco interessato a identificare la canzone che sta ascoltando (e riascoltando, e riascoltando, etc.) con un singolo nome, e più interessato a partecipare a un evento, “quella volta che Tizio e Caio hanno collaborato con Sempronio, Mevio, Filano e Calpurnio”. Non che gli ascoltatori non siano interessati affatto agli artisti in sé, ma non temono che il loro affetto per il singolo risulti diluito per via del suo minore coinvolgimento in una canzone di gruppo: in pratica, una strofa del proprio artista del cuore basta e avanza, anche se deve sgomitare tra le strofe di altri. È la tecnica Marvel: i film degli Avenger raccolgono più soldi dei film dedicati a ciascun singolo componente del team, nonostante i fan di Iron Man o di Thor debbano accontentarsi di una minore centralità del proprio supereroe e un minor tempo dedicato alle sue scene. I supereroi di Istinto animale sono Don Joe, Guè, Annalisa ed Ernia: i loro fan hanno (per così dire) pagato il biglietto, e sono pronti a vederli in azione. Ma poi, qual è la trama di questo brano-evento?
I due rapper parlano di donne che desiderano partecipare alla loro vita glamour e avventurosa, una versione molto milanese del motto “live fast die young”, un modo predatorio e feroce di guardare alla vita, tema ribadito dalle immagini (visive e liriche) dell’istinto animale – decisamente in tono con il successo mediatico del format di interviste Belve. Annalisa, nel ritornello e nel bridge, partecipa a questo immaginario con un quasi letterale “prendi i soldi e scappa” di alleniana memoria, dipingendo il personaggio a cui dà la voce e quelli incarnati da Gué ed Ernia, come dei “figli di nessuno”, eterni underdog a bordo di macchine costose, che continuano a prendere i soldi senza scappare. Ma in un pezzo come Istinto animale concentrarsi sul testo sarebbe fuorviante. Meglio parlare del beat profondamente funky e ad altissima energia che Don Joe serve ai tre artisti. E quindi, dell’origine di Apache, una canzone funk con un titolo nativo americano.
Apache è senz’altro la canzone più celebre della Incredible Bongo Band di Michael Viner, un gruppo e un personaggio che meritano una parentesi. Viner è un produttore discografico dalla storia quantomeno bizzarra. Dopo aver partecipato alla sfortunata e tragica campagna presidenziale di Bobby Kennedy nel 1968, si reinventò discografico e con la MGM Records pubblicò subito un disco che dimostrava il suo strano senso dell’umorismo (e degli affari): The Best of Marcel Marceao, scritto proprio così (forse per evitare guai legali con il mimo Marcel Marceau), cioè un vinile sul quale non fu inciso assolutamente nessun suono, tranne gli applausi alla fine di lunghi silenzi. Due anni dopo, gli viene chiesto di musicare un film blaxploitation fantascientifico abbastanza assurdo, su un uomo con due teste (una di uomo bianco, una di uomo nero) e mette insieme un gruppo di turnisti, cioè musicisti di professione che girano di sessione in sessione, per creare un accompagnamento funky a base di bongo.
L’idea non era del tutto nuova: uno o più bonghisti erano spesso in rotazione in due delle più celebri crew degli anni ‘60, la Wrecking Crew dei Beach Boys, Sonny & Cher, Mamas and Papas tra gli altri, e i Funk Brothers che avevano inciso virtualmente tutte le canzoni dell’etichetta Motown (stiamo parlando di centinaia e centinaia di hit da top 10 della classifica per entrambi i gruppi). Tanto per non sbagliare, Viner chiamò due dei bonghisti di riferimento di entrambe le crew, Bobbye Hall e King Errisson, che si sarebbero alternati tra bongo e conga. A loro aggiunse un batterista di una certa fama e di assoluto talento, Jim Gordon dei Derek and The Dominos di Eric Clapton, uno che aveva accarezzato le pelli su dischi di George Harrison e John Lennon tra gli altri. Quella colonna sonora produsse Bongo Rock, moderato successo. Viner pensò che la band aveva abbastanza talento da stare in piedi da sola, e così decise di mettere insieme un LP (Bongo Rock) di versioni strumentali di brani celebri. La prima traccia di quel disco, uscito nel 1973, è proprio Apache, canzone western resa celebre dagli inglesi The Shadows, poi portata negli Stati Uniti e tinteggiata di surf rock dagli Arrows, e infine immortalata da quest’incisione.
La sua fortuna deriva dall’uso molto particolare che ne fu fatto dentro l’emergente sottocultura hip-hop. Nell’agosto 1973, durante un leggendario party nello scantinato del 1520 di Sedgwick Avenue nel Bronx, DJ Kool Herc avrebbe usato quel brano (e un parte nello specifico) per il suo set al doppio giradischi che, secondo il mito, diede i natali all’hip-hop. Herc aveva trovato un modo per suonare i break strumentali di alcune tracce funk, accostate in tandem tra loro, così da estenderle per un tempo indeterminato e continuare a far ballare il suo pubblico senza sosta. Una volta entrati sulla scena gli MC per intrattenere i presenti, sarebbe effettivamente nato il rap come lo conosciamo, o quasi.
Apache era entrata in questo giochetto di campionamenti dal vivo perché al centro della traccia c’è un segmento strumentale che presenta senza disturbi e con una forza eccezionale un pattern ritmico a dir poco contagioso. Questo ritmo intrecciato di batteria e percussioni, che si sente bene anche all’inizio del brano, è un disegno di colpi e pause precisissimo e inconfondibile, ormai entrato nell’alfabeto della musica con il nome di Apache break. Potremmo scriverlo in modo semplificato, con il solo movimento della batteria di Gordon (pum cià, ta pum ta pum cià) ma la sua forza sta nei contemporanei colpi di bongo e conga, e – cosa non banale – nel modo in cui queste percussioni sono suonate, nella potenza e grazia di questa particolare e inimitabile incisione. E se non si può imitare, si può campionare.
È quello che fecero gli Sugarhill Gang nel 1981. Già responsabili qualche anno prima, con Rapper’s Delight, di aver portato a galla la cultura hip-hop e il gergo del rap, con la loro versione di Apache i tre MC del New Jersey fecero conoscere un suono che aveva girato a lungo nell’underground dei party hip-hop. E che avrebbe girato ancora di più, ora, grazie a loro: nel mondo rap, certo, ma anche nell’elettronica. Ma la forza di Apache non sta solo in questa singola battuta di percussioni, ripetuta all’infinito. Altrettanto irresistibile è il movimento dell’inciso di fiati. E non lo sappiamo solo oggi, grazie a Don Joe e soci: la scena in cui Will e Carlton della serie Il principe di Bel Air ballano il pezzo dei Sugarhill Gang agitando le anche e il bacino sopra quei sette memorabili colpi di fiati e di tamburi è talmente amata e conosciuta da essere entrata nell’enciclopedia dei meme. Costruita sulla scala dorica (la stessa di cui abbiamo parlato a proposito di yes, and) questa melodia contiene in sé la tensione e l’elevazione di questo modo armonico, un mood che si riscontra facilmente nell’intero brano: un altro caso in cui una scala considerata spesso “minore” produce musica tutt’altro che triste e malinconica.
E in effetti Apache rispetta il credo funk per cui ogni momento del brano conta, che l’equilibrio tra pieno e vuoto è l’essenza stessa del groove, e nulla si può lasciare al caso. All’interno di questo storico brano, infatti, si possono trovare parecchi momenti musicali densi e cinetici, quelli che oggi chiameremmo hook. E Don Joe, che è un produttore dei nostri giorni, spezzetta Apache proprio in una serie di hook, rifacendo a proprio modo quel che 43 anni fa avevano fatto gli Sugarhill Gang – con tutta probabilità risuonando da zero le parti, dal momento che i timbri e la tonalità non sembrano coincidere con la registrazione del 1973. Per il resto, Istinto animale segue in modo piuttosto fedele le orme dell’originale: entrambi i brani iniziano con il fraseggio di dodici note di ottoni e fiati; entrambi proseguono usando il pattern delle percussioni non per creare un accento strumentale a solo nel mezzo del brano, un break appunto, ma come pura e semplice base ritmica. Ma Don Joe non lascia all’inciso che chiameremo “di Will e Carlton” lo stesso tempo per svilupparsi: accennato appena sotto la parte finale della strofa, passa come un’eco e va via. Per lasciare spazio a un ritornello completamente originale, armonicamente imparentato con il resto del brano, ma con un mood decisamente più amaro e muscolare (i Linkin Park hanno spesso scritto ritornelli intorno a giri di accordi simili). Ci si arriva con una piccola modulazione, cioè cambiando armonia: dal Si dorico delle strofe (disceso da Apache) si semplifica in un Si minore usando come fulcro, il Re maggiore, l’accordo che si può sentire appena prima che inizia la melodia di Annalisa, mentre gli ottoni nel registro basso suonano cinque note per accompagnarci in questa nuova scena. Una piccola innovazione rispetto all’originale, ma sufficiente per proiettarci in un ritornello del quale non pensavamo di avere bisogno. A volte basta questo, un piccolo ritocco a un capolavoro passato di mano in mano, per guadagnarsi se non proprio una pagina nella storia, almeno una nota a pié di pagina. E, naturalmente, milioni di stream.