Perché non riusciamo a toglierci dalla testa DtMF di Bad Bunny
In che modo si comunica con la musica un’emozione ineffabile e complessa come la nostalgia? La sensazione di calore e tristezza associata al pensiero di un passato al quale sarà impossibile tornare? DtMF di Bad Bunny ha una soluzione, ma non è semplice. Letteralmente, perché – come un po’ tutto il suo ultimo album dice a chiare lettere – il lavoro di squadra è sempre più efficace. E in questo caso la superstar portoricana non lascia nulla al caso: le liriche, l’armonia, il timbro e l’arrangiamento.
Per esprimere “nostalgia”, quella che ci fa dire “avrei dovuto scattare più foto” (sottinteso: dei momenti felici che sono passati) si potrebbe provare con quelle sequenze di note che tradizionalmente abbiamo considerato malinconiche: gli accordi di settima maggiore. Di questi abbiamo già parlato estesamente descrivendo una canzone di Mahmood. Non vale la pena ripetersi, anche perché sono accordi piuttosto comuni e sarei condannato a fare prima o tardi lo stesso discorso. L’uso strategico di un accordo del genere funziona come una staffilata nel fianco, che ci impone di sorbire in un sorso tutta l’amarezza della canzone. Costruire metà dell’accompagnamento su questi accordi, invece, è un po’ meno comune. L’effetto (alla Gymnopédie di Erik Satie) è avvolgere l’intera composizione di una coltre scura. Ma Bad Bunny non è nuovo a queste soluzioni: Otro Atardecer con la band The Marías e Yo No Soy Celoso sono due esempi di quest’attitudine totalizzante. Quando la malinconia deve essere il sentimento-guida, l’artista portoricano sa optare per beat che fanno uso di settime maggiori senza mezzi termini.
DtMF ci comunica questo mood dal primo istante, con una serie di accordi suonati su tastiere con un timbro morbido, etereo, poco deciso: non quello che ci si aspetta da musica da ballare, ma tutt’altro che insolito per Bad Bunny, i cui brani hanno da sempre avuto suoni di sintetizzatori peculiari e significativi. Qui, ad esempio, il timbro ci suggerisce una dimensione semi-onirica, che contribuisce al senso di insoddisfazione del giro di accordi. A questi si sovrappone un riff di tastiera, con un suono se possibile ancora più smaterializzato, che con poche note (come deve fare chi vuole farsi ricordare dall’ascoltatore) si propone come un classico hook, il motivo che da subito deve aiutare la memorizzazione di un brano. Non solo: questo inciso di otto note crea un ritmo laddove il battito non c’è, perché il beat non partirà per quasi un minuto intero. L’intera canzone, in realtà, si regge proprio su questo movimento melodico e sulla sua variazione che sentiamo nel ritornello, e anche questo ha una sua efficacia: nel pop chi si ingegna con poche risorse ha più fortuna di chi abbonda e prova inutilmente a strafare.
Anzi, Bad Bunny e il suo team di produttori (MAG, Scotty Dittrich, JULiA LEWiS, Tyler Spry, La Paciencia) fanno del contegno un’arte in questo brano: rispetto a molte altre produzioni del portoricano, anche presenti su questo stesso disco, dove la cassa sovrasta quasi ogni altro suono, qui si potrebbe considerare perfino ammutolita. Per dirla in altri termini, la cassa non “spinge” mai fino in fondo. Questo lascia spazio alle altre percussioni di brillare: in particolare, in diversi stacchi strumentali sentiamo una cosa che assomiglia alla conga, lo strumento di Cuba. Molto più probabilmente si tratta, in verità, di un batá, tamburo di tradizione Yoruba (quindi africana) che è passato oltre oceano con la tratta degli schiavi e ha trovato posto nella musica caraibica. Si può presumere che si tratti del batá perché una battuta prima di comparire viene menzionato da Bad Bunny. Il suo ingresso, così chiaramente organico e tattile rispetto alle percussioni campionate dei classici beat reggaeton, ci sta mandando un messaggio preciso, che cogliamo anche senza conoscere tutto il contesto, così come una chitarra acustica “significa” qualcosa di diverso rispetto a un’elettrica: un richiamo alla semplicità, all’autenticità, parola chiave della nostra epoca, dalla cultura al marketing.
L’oggetto del rimpianto, trasmesso con suoni attutiti e accordi di settima maggiore, quindi è questa autenticità. Che nel caso di Bad Bunny si applica in particolare alla musica portoricana, ma con cui tutti possiamo immedesimarci. Il narratore che dice “avrei dovuto scattare più foto” sta comunicando un senso di nostalgia che chiunque può intendere: se avessi saputo, avrei fatto tutto diversamente. Purtroppo non posso tornare indietro, e devo convivere con le conseguenze di ciò. L’artista, che rivolge questi pensieri alla memoria di un tempo felice, li interpreta con un trasporto appropriato alla situazione: nella sua performance vocale non sentiamo la disperazione straziante e melodrammatica, ma una cupezza profonda, probabilmente accentuata dall’abuso di alcool che gli fa trascinare le vocali anche più di autotune. Sia chiaro che stiamo parlando sempre del personaggio narrante della canzone, che nella seconda strofa parla appunto di rum scolati “per dimenticare”.
Solo che Bad Bunny non solo non dimentica, ma ricorda: ricorda le ragioni per cui ama la cultura della sua isola, dove ciò che è comune e condiviso ha molto valore, e ricorda che quelle tradizioni non sono ancora perdute, che è ancora possibile un presente (il suo, della maturità) in cui si smette di dare attenzione alle cose scintillanti in superficie e ci si cura della famiglia e degli altri. E, come sempre nei brani ben congegnati, questo non ci viene detto soltanto a parole, ma con l’arrangiamento. Battuta dopo battuta sentiamo entrare altre voci e altri strumenti, una chitarra elettrica, il summenzionato batá, e poi il güiro (anch’esso citato nel testo), forse una pandereta; e infine un barril de bomba, parente alla lontana della conga cubana e strumento essenziale per il genere a cui è associato per antonomasia. L’afflusso di nuovi personaggi culmina in un silenzio che giunge improvviso come il “drop” di un pezzo dance. Qui Bad Bunny invita tutti, amici, ascoltatori, curiosi, ad ascoltare la sua versione di musica portoricana, la sua idea di come salsa, plena o rumba possono esistere e resistere nel presente. Il beat programmato si stoppa e il ritornello diventa una jam: solo voci e percussioni, l’essenza più pura della musica boricua. Acusticamente può spiazzare, ma narrativamente è un finale perfetto al quale giungiamo dopo un crescendo tematico e strumentale. Il personaggio, ma anche la canzone, giunge alla sua forma più vera.
Negli ultimi giorni DtMF di Bad Bunny è diventata un trend su TikTok. Come funziona questo trend? C’è un primo piano della faccia di chi ascolta, con le cuffie sulle orecchie, una lacrima scende sulla guancia, l’ascoltatore se la asciuga. Il segmento divenuto virale è la seconda metà del primo ritornello, quando per la prima volta si sente un coro intonare l’inciso. Sono le parole a commuovere? O forse è la melodia stessa, ostinata e asimmetrica, che funziona pur non avendo l’equilibrio di una cosa scritta a tavolino? O proprio perché sembra una melodia improvvisata sopra il beat dei tamburi? Oppure, la lacrima scende perché quel coro e il batá anticipano quel finale caotico, sentimentale e trionfale? Forse è per tutte queste ragioni insieme. In fondo Bad Bunny ce lo sta dicendo chiaramente: da soli non si va da nessuna parte.