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Nel concetto di “tormentone” c’è un elemento al quale troppo spesso non facciamo caso: il tormento. Una canzone che riesca allo stesso tempo a piacere ed esasperare merita un posto nell’Olimpo dei tormentoni. Ma l’aria è veramente rarefatta nelle alture più irraggiungibili, dove una canzone somministra piacevolezza ed esasperazione non semplicemente in conseguenza della sua diffusione in radio, in tv e sui social network, ma al proprio ritmo, scientemente, con un esperimento artistico al limite del dadaista: Cuoricini dei Coma Cose, piaccia o meno, fa parte di questa élite pop.
Al contrario di quanto si possa pensare, una canzone non diventa un tormentone perché passa spesso alla radio: Cuoricini, ad esempio, è quarta nella classifica di airplay italiana, e in salita. Viceversa, una canzone passa spesso alla radio perché è un tormentone, e chi programma il palinsesto sa che la sua comparsa desterà qualche forma di attenzione (o, eventualmente, fastidio) nell’ascoltatore. L’attuale successo della canzone, insomma, non è la causa, ma la conseguenza di un ingranaggio musicale e lirico ben congegnato. E, come nei migliori casi di “tormentonismo” trattati in questa rubrica, il congegno funziona per via di quello che dice, e non malgrado quello che dica. Ma partiamo dal principio.
Cuoricini parla dell’alienazione che si prova vivendo contemporaneamente nel mondo reale e sopra i social network, obbedendo più alle leggi non scritte di quest’ultimi che non alle convenzioni civili del primo. I social ci hanno insegnato, nostro malgrado, che il valore di una persona equivale alla sua capacità di raccogliere consensi. (In fondo, non è come intendiamo anche la politica di questi tempi, come se una maggioranza equivalesse alla carta bianca? Ma non divaghiamo). Ma misurando il nostro valore in “cuoricini” rischiamo di perdere la bussola, e perdere anche le persone che ci stanno accanto.
Il messaggio è semplice, e se vogliamo perfino troppo didascalico ed edificante: non è, però, la prima volta che i Coma Cose si esprimono nelle canzoni contro le logiche della popolarità e le loro ricadute sulle vite di tutti i giorni. Gli stessi album Hype Aura del 2019 e Un meraviglioso modo di salvarsi del 2022, in particolare, possono essere letti come due concept legati alle aspettative sproporzionate che la società, specialmente l’incarnazione crudele ed efficientista della società in cui viviamo oggi, pone su di noi, impreparati a vivere in questa giungla. A ben vedere, anche la primissima traccia pubblicata dal duo milanese, Cannibalismo, poneva questi problemi nel lontano 2017.
Insomma, chi conosce la discografia di Fausto e California e chi presta attenzione ai testi – una minoranza, per carità – avrà ricevuto da questa canzone il primo boccone saporito: un argomento familiare, che quindi non spiazza almeno parte del pubblico, ma lo rassicura. Forse sarà l’ultima rassicurazione.
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Non arriveremo a dire che Cuoricini si intarla nel cervello per via del suo messaggio socio-culturale. Checché ne dicano i censori vecchi o nuovi, la musica pop non ha queste capacità persuasive, sia che somministri buone norme del vivere civile, sia che ritragga malcostumi e misoginia. Ma che la canzone abbia a che fare con uno straniamento profondo si capisce fin dal primo verso: “Oggi mi sento una pozzanghera”, forse la migliore metafora dell’intero Festival di Sanremo, comunica un disagio talmente profondo da cambiare la natura stessa della nostra prima voce narrante. A questa descrizione atroce si accompagna una traccia strumentale uptempo ma ossessiva, un basso martellante sugli ottavi e saltellante sulle ottave (sembra un gioco di parole ma non lo è) che rimanda alla techno commerciale delle “discoteche abbandonate”, tanto per citare un’altra canzone del duo. Un suono che incarna la natura contraddittoria dei tormentoni italiani: popolarissimo al punto da appartenere all’unica vera sottocultura giovanile nazionale degli ultimi 40 anni, e tuttavia alieno al concetto di canzone melodica all’italiana.
La combinazione qui in uso finora ha ingredienti semplici e ben conosciuti alle orecchie nostrane: bassi pestati grevi tra Giorgio Moroder e la disco pomeridiana; testo satirico ma sentimentale e grottesco; melodia spigolosa al punto giusto. Se giocassimo alle reference – non per supporre che il pubblico generalista le conosca, ma solo per orientarci nel nostro discorso – potremmo pensare a canzoni come Disco 2000 dei Pulp o Amanda Lear dei Baustelle, a loro volta canzoni cannibali dei cliché discomusic. Ma quando arriva il ritornello, lo straniamento raggiunge il surreale.
Quando, dopo il drop (che spiegammo qui), restano solo il basso e la melodia a due voci, siamo posti con orrore di fronte a un’epifania: per sette battute veniamo convinti che questa canzone non sia nient’altro che la versione surreale e deforme del dance-pop melodico all’italiana degli anni ‘80. Tre parole corrono alla mente: Ricchi, E, Poveri. E del resto, i Coma Cose suonarono già quei ritmi marcianti e cantarono già quell’ottimismo a cento ottani tipico del gruppo ligure in un Festival di Sanremo. Era il 2023 e gli ospiti furono proprio i Baustelle.
Mantenendo un andamento in verità più simile a Se m’innamoro e ostentando strenua convinzione, Fausto e California ci parlano di questi “stramaledetti cuoricini” che nell’accumulazione ossessiva del ritornello ottengono due risultati: incidere a fuoco nella nostra memoria quelle due note appena ascendenti (dada-dada, Re Re Mi Mi); e provocare una sorta di nausea. I “cuoricini” che sanciscono il nostro valore pervadono ogni interazione e regolano ogni momento che trascorriamo in quel Thunderdome che chiamiamo Instagram: i “cuoricini” sono letteralmente dappertutto, sotto ogni post, nelle nostre notifiche, in un meccanismo perfetto per scatenare l’ansia anche in un santone zen. Allo stesso modo i “cuoricini” intonati dai Coma Cose invadono ogni angolo del ritornello, riempiendolo fino al colmo.
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Il gruppo sta giocando con il fuoco, ovvero con il cattivo gusto – forse è per questo che la copertina del disco che conterrà il brano, Vita fusa, è stata chiaramente realizzata con un’intelligenza artificiale, depositaria del cattivo gusto contemporaneo. Ma dopo sette battute di martellamento, deve arrivare uno spunto fulminante, la svirgolata che avvera il nostro disorientamento. E, come nei thriller, questa arriva all’ultimo secondo. Sono quattro note, che i due intonano sopra la parole “il gusto di sbagliare tutto”, peraltro a loro volta memori di un altro sintagma comacosiano: “questo troppo di tutto toglie il gusto anche ai sogni”. Le note sono: Fa Mi – un salto – Do Si, e disegnano due strambe parallele, due micro-motivi indubbiamente diatonici (cioè facenti parte della tonalità generale del brano) ma allo stesso tempo simili a una scivolata cromatica (cioè fuori scala) per via dell’intervallo più breve possibile che separa le due coppie (un semitono, per i nerd in ascolto). Ma non è neppure solo qui l’uncanny valley di Cuoricini, che si avverte proprio alla fine.
Sto parlando di un tritono, un intervallo tra due note che secondo alcune leggende metropolitane – assolutamente fuorvianti – sarebbe stato vietato nella musica medievale perché avrebbe evocato il demonio. L’equivoco, nato dall’espressione “diabolus in musica” che non abbiamo tempo per spiegare, viene facile perché il nostro orecchio – in effetti – non ascolta con piacere queste due note se suonate insieme. Eppure è proprio qui che atterra Cuoricini: il basso suona Fa, la voce canta Si e noi sentiamo le due note grattare fra di loro in modo “innaturale”.
Come i nostri cervelli, ancora profondamente bestiali, non sono costruiti per gestire tutti gli impulsi che riceviamo nella nostra esistenza digitale, così l’orecchio non riesce a sopportare l’accostamento di queste due note. E allora “chiede” un altro giro, un’altra soluzione posticcia e provvisoria che in realtà riporta al problema di partenza: altri cuoricini, soverchianti cuoricini. È la musica stessa che ci intrappola in questo circolo vizioso: esiste solo una cura per guarire questo tormento, ed è infliggersi il supplizio un’altra volta.
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